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IL GENIO DELL’URBE, OVVERO LA SACERTÀ NATURALE DELL’URBE

di RENATO DEL PONTE.

Estratto da “Hic manebimus optime!”.
Di TITO LIVIO PALATINO.
Edizioni Arŷa, Genova 2015. 

Il genius loci, cioè il genio del luogo dove sorgerà Roma (divenendo così il Genius Urbis Romae) non è probabilmente fornito di un nome specifico ed è in ogni caso distinto dalla divinità tutelare della città – per non parlare del Genius Publicus Populi Romani Quiritium – ma è quello che le attribuirà le caratteristiche generali nel corso della sua storia. Servio (anche lui commensale dei Saturnalia, e quindi compagno di Simmaco e di Ceionio Rufio Albino, entrambi Pontefices, nonché di Vettio Agorio Pretestato, ritenuto l’ultimo dei Pontefici Massimi), è colui che ci offre la migliore definizione di questo Genius: Genius autem dicebant antiqui naturalem deum uniusque loci vel rei aut hominis, e: nullus enim locus sine Genio.
 

Un moderno e grande linguista indoeuropeo, Émile Benveniste, sembra dare ragione a Servio quando, dovendo qualificare il termine latino locus, così dice: “Locus va definito come il luogo naturale di “qualche cosa””.
 

Questo “qualche cosa” è naturalmente il Genius. Quando Enea, giunto sulle sponde del Tevere e dopo aver riconosciuta la sua destinazione, prega gli dèi maggiori e invoca il misterioso Genius Loci, gli apparirà in sogno Tiberinus Pater: proprio lui è il Dio o Genio del luogo (Deus ipse Loci Fluvio Tiberinus Amoeno… visus).
 

Tutto ciò ci porta inevitabilmente a definire il concetto di “spazio sacro”, allo scopo di meglio intendere la natura della sacertà naturale di Roma. Le parti dello spazio hanno un valore proprio e indipendente, sono luoghi. Anche per l’animale il luogo è un sito riconoscibile e a cui è in grado di dirigersi. Così l’uomo antico, fissandosi in una località, ne riconosceva la potenza. Proprio a Roma il collegio degli Auguri poteva trasformare un locus in liberatus ed affatus, cioè separato dal resto. Nasceva così lo “spazio sacro”: “Quel luogo che diventa località quando l’effetto della potenza vi si riproduce o vi è rinnovato dall’uomo”.
 

Il lucus, ad es., è una radura in un bosco dove si pratica l’atto cultuale. Scrive Seneca: “Quando ti avvicini ad un lucus che spicca per molti alberi annosi e d’insolita altezza, dove l’ombra dei rami sovrapposti fa l’effetto della volta celeste, lo slancio agile degli alberi, la misteriosa oscurità del luogo, l’ammirazione per un’ombra così manifestamente densa e ininterrotta, tutto questo risveglia in te la fede in una divinità”. Una tale impressione diretta è possibile solo in un mondo non ancora ridotto dall’uomo a cosa morta o privato della sua potenza: non certo per la grande maggioranza dei luoghi in cui oggi viviamo. 
 

Dunque, un luogo non è sacro per un tempio, un’ara, un santuario specifico che si trovino lì eretti, ma è la sua sacertà naturale (il suo Genius Loci) che vi ha fatto sorgere quei manufatti, i quali diventano così centri di potenza. Esiste una speciale arte di orientamento per la quale è possibile identificare luoghi del genere: un’arte che è in grado di definire questo centro di potenza, dove la stessa potenza sarà circoscritta e resa frequentabile. È l’arte che spinse i due gemelli Romolo e Remo a rinvenire nell’area dei colli romani un consimile centro: il quale assumerà nel tempo una potenza senza pari e sarà anche un “campo di percezione”. 
 

Camillo inviterà il popolo a non abbandonare il sito di Roma, devastato dai Galli, proprio perché la stabilitas loci è la condizione necessaria non solo e non tanto per la vita umana, ma per la contemporanea presenza del Genius. Proteggere e conservare il Genius Loci significa concretizzare l’essenza in contesti sempre nuovi: ne è stato proprio il caso di Roma. Venire a patti col Genius del luogo in cui si doveva vivere, significava “sopravvivere”. Hic manebimus optime: qui rimarremo perché qui è stato segnato il nostro destino, qui è nata la nostra identità… 
 

Il Genius Loci dell’Urbe è sempre sfuggito ad una precisa identificazione perché la sua aeternitas si sottrae ad ogni definizione, in un sito in cui elemento naturale ed elemento umano appaiono strettamente uniti. Eppure l’analisi di alcuni aspetti del paesaggio laziale consente di intendere certe importanti componenti del Genius Loci romano.
 

Ma per meglio comprendere il paesaggio delle origini occorre tuttavia fare riferimento alle assai speciali valli infossate nell’Etruria meridionale, dove ancora oggi spazi idilliaci sono racchiusi fra pareti di tufo dal colore dell’oro ambrato. Era questo il carattere dominante della Roma delle origini, quando il Septimontium si presentava come una serie di valli chiuse, di fianco al Tevere (Tiberinus Pater), possente nella sua “bionda” vitalità. A Sovana, Sorano, Pitigliano, Vulci e altrove gli Etruschi vi scavarono sui fianchi tombe monumentali ed antri cultuali, mentre gli abitati erano situati sulle creste. Tale fu pure lo schema della Roma primitiva, che quindi rappresenta l’autentica componente locale del suo Genius. L’area della Tuscia, così come quella della futura Roma, è di formazione vulcanica e il suolo è ricoperto da una spessa crosta di origine lavica, quale è appunto il tufo. Nel corso del tempo corsi d’acqua vi scavarono valli e gole profonde, le forre.
 

Tutto ciò rimanda alle forze ctonie della natura, che ci riportano all’interno, alle radici primigenie della terra. È, questa, un’indicazione preziosa per comprendere le “vesti” (se non il nome) del Genius Urbis Romae, ove si tenga ben presente che “ctonio” non significa propriamente “infero”.
 

Due rupi di tufo sono il Campidoglio o Monte di Saturno (che tanta importanza ha rivestito per la vicenda legata a Camillo ed i Galli) e il Palatino, dove fu acceso da Romolo il primo fuoco dell’Urbe, ma dove già esisteva un antico sacello, servito da Vestali, sacro alla Dea Caca. Oggi l’uno e l’altro hanno mantenuto, seppure in maniera molto differente, le loro caratteristiche.
 

Il Campidoglio, che fu in grado di respingere l’assalto dei Galli, è del tutto monumentalizzato: ma nella sua piazza quattrocentesca, opera di Michelangelo, con al centro la statua equestre dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, rivive il sentimento dell’antico Genius Urbis e del ruolo della città Caput Mundi. Rinvia a quel Caput Humanum che proprio lì fu trovato nel costruire le fondamenta del Tempio di Giove Ottimo Massimo. La pavimentazione a schema stellare della piazza genera una netta spinta centrifuga che contrasta con le facciate dei palazzi che vi convergono. Essa riporta al centro dell’universo e riconduce al fulcro delle partenze e dei ritorni dei grandi generali trionfatori sino al colossale Tempio di Giove Capitolino. 
 

Al Campidoglio, là dove la pietra di Terminus rifiutò di farsi spostare e tuttora (sebbene resasi invisibile) sta ad indicare l’Axis Mundi, si contrappone idealmente nell’Urbe lo spazio interno del Pantheon di Agrippa e di Adriano, la cui chiusura è interpenetrata da un asse longitudinale che permette di visualizzare le proprietà basiche spaziali del Genius Urbis Romae.
 

Sotto la sua cupola celestiale Saturno ed Opi, il Cielo e la Madre Terra, sono destinati a congiungersi in una ierogamia mai interrotta: è da questo matrimonio celeste che ha avuto origine l’idea di Roma. 

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