IL COLLEGIO DEI FRATELLI ARVALI
di RENATO DEL PONTE.
Estratto da “Roma amor”.
Edizioni Arŷa, Genova 2022.
L’Italia, in quanto terra di Saturno, ha conservato meglio di ogni paese al mondo le ultime tracce dell’Età dell’Oro. In conformità alla legge del lavoro della terra, insegnata da Saturno e confermata da Giove Ottimo Massimo custode dei termini, il Romano può avvicinarsi ad un tipo di esistenza simile a quello della stirpe saturnia, messo in forse dalle guerre civili e dalla discordia.
È questa la filosofia sottesa alla composizione delle virgiliane Georgiche (che guardavano al grande antecedente delle Opere e Giorni di Esiodo) ed è questa la spinta che porterà – in un contesto più generale volto a restaurare tutti i culti agrari di Roma – I’imperatore Augusto a rianimare il culto di Dea Dia, la divinità che sovraintendeva alle condizioni atmosferiche atte a favorire la fioritura e la maturazione delle spighe di grano, cioè ad eliminare ogni vitium coeli che ostasse a tale processo: quindi, a questo scopo, a restaurare un’antica confraternita le cui funzioni da molto tempo erano in disuso: il collegio dei Fratelli Arvali.
Lo studio della data dell’incisione dei Fasti degli Arvali permette d’inserire la riorganizzazione del culto di Dea Dia tra gli anni 30/29 e 21 a.C., cosa che pienamente rientra fra i grandi temi ideologici del tempo: la restaurazione dei culti, dei riti e dei templi, la chiusura delle porte del tempio di Giano, la celebrazione dello augurum salutis, l’inclusione del nome principale nell’Inno dei Salii, la celebrazione del lavoro nei campi, il “Romulismo” e la concordia fra i cittadini e le classi sociali.
ORIGINI E SIGNIFICATO DEL COLLEGIO
La tradizione attribuisce l’origine del collegio ad Acca Larenzia, moglie di Faustolo e nutrice di Romolo (e Remo) e quindi a Romolo stesso.
Così afferma Masurio Sabino: “Acca Larenzia fu nutrice di Romolo. Avendo quella donna perso uno dei suoi 12 figli maschi, al suo posto si sostituì come figlio Romolo chiamò se stesso e gli altri figli Fratelli Arvali. Risale a quel tempo il collegio dei Fratelli Arvali nel numero di 12, l’insegna del cui sacerdozio sono una corona di spighe e bende bianche (Infulae) al capo.
Varrone (L.L. V, 15, 85), il quale rimane la fonte più antica, riporta che il nome di “Fratelli Arvali deriva dal fatto di celebrare pubblici sacrifici affinché i campi producano le messi (ut frugem ferant arva): quindi a ferendo et arvis furono così chiamati in quanto componenti una fratria: vocabolo di origine greca che indica una frazione di uomini, come ancora oggi a Napoli”.
Il riferimento varroniano ha fatto supporre a molti che questi fratres (si tratta dell’unica confraternita religiosa romana i cui membri si chiamassero così, anche se il giurista Ulpiano li definisce sodales “che tutelavano i confini”) fossero legati da un’unione più intima, tale da trasformare in qualche modo il loro status come membri di una nuova famiglia spirituale (leggi “iniziatica”) riscontrabile in ambito italico col solo caso dei dodici Fratelli Atiedii di Gubbio.
Il numero di dodici ‒ quello dei mesi dell’anno – ricorre anche nella composizione del sodalizio dei Luperci e in quello dei Salii: ma in questi si hanno due gruppo di dodici membri per ciascun collegio, mentre nel sodalizio arvale vi è un solo gruppo di dodici membri.
Il riferimento all’epoca dei re ed a Romolo traspare anche dal fatto che i fratelli si riunissero (si vedano i Fasti Arvalici del 14 e 38 d.C.) presso la regia oppure il tempio di Giove Statore, fondato da Romolo: Peraltro, l’indagine prosopografica confermerebbe l’opinione prevalente fra gli studiosi del tempo di Cesare, secondo cui la riforma di Augusto faceva degli Arvali dei “fratelli di sangue”, cosa che effettivamente risulta in proporzioni maggiori rispetto ad ogni altro collegio nel corso di tutta l’epoca imperiale, a partire dallo stesso Augusto, il cui intento pacificatorio risulta inoltre dal fatto che tra i primi Arvali reclutati dal principe ci fossero esponenti, non solo delle più antiche e nobili famiglie romane, ma rappresentanti di “partiti” che si erano scontrati nel corso delle passate guerre civili.
Strettamente legati al loro “fratello”, l’imperatore, nuovo Romolo, il quale molto probabilmente fu uno dei primi magistri della confraternita riformata (e accolse i suoi “fratelli” nel suo palazzo solo in rare occasioni: cioè dopo i suoi trionfi), gli Arvali in ogni caso rimasero sempre dei sacerdotes publici che sacrificavano in nome del popolo romano; inamovibili sino alla morte e non passibili di decadenza dal sacerdozio in nessun caso: neppure nel caso di eventuale cattura da parte del nemico e relativa perdita della cittadinanza (come solo anche per gli auguri e, forse per il pontefice massimo).