IL POPOLO DI MARTE: LA GUERRA E IL SACRO
di RENATO DEL PONTE.
Articolo programmato per “Roma amor”.
Edizioni Arŷa, Genova 2022
Spesso, come riferito a tutto ciò che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia, parlando di Roma antica, ricorre l’espressione di “mistero” e noi stessi ne abbiamo fatto uso più volte accennando al “mistero” delle sue origini, alle divinità “arcane” che ne hanno presieduto le sorti, all’enigma della sua missione nel mondo, che tuttora non pare esaurita. Forse tutto ciò è connesso in maniera inestricabile col “mistero” del sacrificio dei suoi cittadini, i quali, come scrive Catone nelle Origini, inquadrati in legioni, “erano sempre con alto animo pronti ad andare in luoghi onde sapevano non sarebbero mai più tornati.”
Si può allora parlare di “mistero” legato all’esercizio della guerra per il benessere, la grandezza, l’estensione del nome di Roma, in Italia e nel mondo? Io credo dunque di sì…
Dedicherò alcune brevi considerazioni non alla storia dell’esercito o delle istituzioni militari romane, su cui esiste una vastissima letteratura, ma al rapporto fra la guerra (bellum: e vedremo che cosa i romani intendessero con tale espressione) e il sacro, soprattutto in riferimento al tempo delle origini e della prima res publica. E questo dal momento che molte ricorrenze calendariali, dal mese di marzo a quello di ottobre, di origine assai remota, sono dedicate a feste e rituali connessi alla guerra.
LE ORIGINI MARZIALI DI ROMA
L’antica costumanza italica del ver sacrum consisteva, in epoca protostorica, nell’offerta o, meglio, la consacrazione di tutta una generazione o “classe di età”, la più giovane, a un Dio, il quale, in Italia, sempre fu Marte.
I giovani e le vergini consacrati erano condotti, attorno ai vent’anni, oltre i confini della comunità col capo velato. A Roma questo denotava la speciale condizione di Sacrati, “consacrati a un dio”, “inviolabili”, dal momento che la divinità stessa avrebbe vegliato sulla loro sorte. Così si sarebbe popolata buona parte dell’Italia in una direzione che avrebbe seguito, da nord a sud, la linea della dorsale appenninica. In genere, riporta la tradizione, era un animale sacro a Marte: un picchio, un lupo, un toro, a far da guida ai giovani velati e Livio (XXXIV 44,3) riferisce come nelle “primavere sacre” quel che era consacrato al Dio dovesse necessariamente essere nato “fra le calende di marzo e il giorno prima delle calende di maggio”, cioè fra il 1° marzo e il 30 aprile. Si noterà che entro questi termini cade la data tradizionale della fondazione dell’Urbe (21 aprile) per opera dei divini gemelli figli di Marte, il quale aveva inviato la sua lupa (immagine marziale della vis bellica) e il suo picchio ad assistere i piccoli infanti, prima che Faustolo ed Acca Larentia li accogliessero nella loro capanna.
Del resto, era proprio con il mese dedicato a Marte, Martius, che iniziavano nel contempo la primavera, l’anno antico e la stagione di guerra, che sarebbe durata sino ad ottobre. Gli antichi spiegavano la cosa così: “il mese di marzo fu l’inizio dell’anno nel Lazio e a Roma sin dalla fondazione, perché quella gente era bellicosissima” (Fest., 136 l.); “vollero avere come principio dell’anno Marzo a causa di Marte, promotore della loro stirpe” (Serv., ad Georg. I, 43).
Ma la guerra, si sono chiesti alcuni illustri studiosi moderni (fra questi F. Sini ha sottolineato come hostit, in origine, non significasse “nemico” ma lo “straniero” a cui si riconosceva parità di ius col popolo romano), per quanto importante per gli antichi Latini, era la normalità su cui potesse fondarsi un sistema calendariale? “Guerra e pace”, ha scritto S. Ruta, “appartengono alla sfera del sacro ed in effetti ad esse partecipano gli uomini, il mondo degli dèi, nello stesso tempo”. Direi dunque che la risposta è nella storia stessa di Roma, nella sua prassi, dal momento che la vera “pace”, cioè il “patto con gli Dèi” (pax deorum), non era che il ristabilimento di una frattura (di cui si incaricavano gli specialisti del ramo, gli esperti dell’arte dei trattati: i Fetiales), essendo la guerra la regola costante di un popolo costretto, da condizioni ambientali e antropiche particolari, a mantenersi in un perfetto stato di mobilitazione. E ciò ha forgiato il carattere dei Romani.
L’“INDICTIO BELLI” E L’APERTURA DEL TEMPIO DI GIANO
Dal punto di vista religioso a Roma due diverse cerimonie segnavano l’inizio della guerra: l’indictio belli e l’apertura del tempio di Giano. Il vero atto di dichiarazione di guerra – dopo che questa era stata proclamata dal Re e dal Senato come purum piumque duellum – consisteva in una vera e propria operazione magica. Un Feziale scagliava in territorio nemico un giavellotto dalla punta di ferro o di legno di corniolo (cornus: un arbor felix) con la punta indurita dal fuoco (hastam sanguineam praeustam); un tipo di arma, quest’ultimo, che rinvia a tempi e concezioni preistoriche. Si tratta forse di quella che Varrone, nei suoi perduti Libri de gente populi Romani, definisce come hasta pura (cioè senza punta metallica) e come il contrassegno di chi, in epoca antica, avesse per primo vinto in uno scontro a singolar tenzone nel corso di una battaglia.
Con quest’arma Virgilio raffigura Silvio Postumo, figlio di Enea e Lavinia (Aen. VI 760 e ss.).
L’ordine cosmico, attualizzato dall’azione non antagonista, bensì complementare, delle due forze che danno origine al mondo della manifestazione, a Roma è simboleggiato dall’alterno aprirsi e chiudersi delle porte del tempio di Giano: la guerra e la pace sono i due elementi insopprimibili di quell’ordine. “Fu da Numa Pompilio stabilito per legge che la porta dovesse restare aperta sempre tranne il caso in cui non ci fosse guerra in nessuna parte” (Varr., L.L. V 34, 165). Il magistrato più alto in carica munito di imperium le apriva con rito solenne “indossando la trabea Quirinale e cinto alla maniera Gabina” (Verg., Aen. VII, 612). Quelle porte, che Virgilio dice “consacrate a Marte”, furono dal tempo di Numa a quello di Augusto, chiuse solo tre volte.
Nella Roma cristiano-bizantina della metà del VI sec. d.C. alcune persone rimaste sconosciute mentre la città era cinta d’assedio dai Goti di Todia scardinarono nottetempo le porte del tempio, ancora intatto per dare modo al Dio di manifestarsi (Procop., B. Got, I, 21), ma una simile apertura irrituale portò all’inevitabile sconfitta.
“MARS, VIGILA!”
Plutarco (Rom, 29, 1) riporta che nel sacrarium Martis all’interno della Regia si trovava una “lancia consacrata chiamata Marte”. La lancia, come è evidente, rappresentava la “potenza” di Marte. Si preannunciavano tempi pericolosi se la lancia della Regia si muoveva da sola (hastae Martis in Regia sponte sua motae sunt, riportavano puntigliosamente i pontefici). Invece ci si attendeva un’evenienza bellica favorevole dopo il rito propiziatorio compiuto dal generale in procinto di partire per la guerra, quando, entrato nel sacrario del dio, aveva agitato g1i scudi sacri dei Salii (Ancilia) appesi al muro e la sua lancia, dicendo: Mars vigila!
Tale richiamo equivale esattamente a quello che le vestali rivolgevano al Rex affinché vegliasse in armi sul focolare della città: Vigilasne, Rex? Vigila!
E, come il Rex, Marte vegliava sulle sorti della città e in una sola straordinaria occasione intervenne in prima persona a difesa dei suoi cittadini. Avvenne nel 282 a.C., allorché comparve in battaglia contro Brutii e Lucani sotto forma di un giovane soldato di eccezionale statura e valore, poi scomparso all’improvviso (Val. Max. I, 86). La prova? Il casco dal duplice pennacchio che ornava il suo capo. Virgilio (Aen VI, 779) così raffigura Romolo, proprio in quanto figlio di Marte. Esiste un unico antecedente di un diretto intervento divino in un campo di battaglia: lo scontro sanguinoso del Lago Regillo (499 a.C.), in cui i divini gemelli, Castore e Polluce, intervennero a favore dei Romani contro i Latini di Ottavio Mamilio.
A ricordo di questo prodigio, ogni anno alle idi di Luglio, una sfilata di cavalieri procede in loro omaggio dal tempio di Onore e da quello gemello di Virtù sino al Campidoglio.
IL GUERRIERO DELLE ORIGINI, OVVERO “BELLVM” COME “DVELLVM”
Era la cavalleria che costituiva il nerbo del più antico esercito. Allo stesso modo dei guerrieri omerici o dell’Arjuna della Bhagavad-Gità, il cavaliere romano, certamente munito di carro, usciva dalle file e iniziava singoli combattimenti col nemico. Egli conduceva in battaglia due cavalli, così da averne pronto uno fresco e in grado di sostenere un nuovo attacco dopo aver eliminato un primo avversario.
Questo tipo di combattimento rimase in uso per molto tempo, in piena epoca storica, anche quando la tattica primitiva era stata abbandonata. Perché quando Marte si scatena sul campo di battaglia può essere cieco, colpisce e massacra, senza fare distinzioni, in preda al furor bellico, che può sfrenarsi nei riti di iniziazione di giovani guerrieri-lupo (i Luperci) od essere incanalato al servizio della città (come fanno i disciplinati Salii). Proprio nel duello il furor, “l’ideale selvaggio e il grande strumento dei guerrieri italici della preistoria” (G. Dumézil) trovava la sua più significativa manifestazione.
L’origine stessa della parola bellum si faceva derivare: da duellum (Varr. L.L. V, 73; VII, 49), cimento individuale particolarmente riservato al re ed ai capi, e in cui risiedeva l’essenza dello spirito guerriero latino. Il re guerriero per eccellenza, Tullo Ostilio, “esaltava la bellezza del duello, che due comandanti combattono per conquistare la supremazia e la potenza” (Dion. III 12, 2).
Il primo scenario guerriero di Roma vedeva Romolo impegnato in un duello individuale con Arone, re di Cenina. Allo stesso modo si scontrano in duello Bruto contro Arunte Tarquinio, perché “allora era motivo di onore per i capi iniziare personalmente la battaglia” (Liv. II 6, 8) ed il magister equitum Tito Ebuzio con il dittatore tusculano Ottavio Mamilio, Cornelio Cosso contro il re di Veio Tolumnio (428 a.C.). In epoca più recente si batteranno L. Fabio (391 a.C.), Tito Manlio Torquato (364 a.C.), Valerio Corvino (309 a.C.), T. Manlio figlio di Torquato (340 a.C.), Marcello contro il duce degl’Insubri>i Vidomaro (212 a.C.), Claudio Asello (215 a.C.) e Publio Scipione Emiliano (151 a.C.).
Il console del 202 a.C., M. Servilio Pulex Gemino, si vanta in un discorso d’aver sostenuto ventitré singolari tenzoni in seguito a sfide e nelle monete della gens Servilia è rappresentato in atto di correre a cavallo con la lancia in resta contro il nemico. Romolo, Cornelio Cosso e Marcello saranno gli unici, in tutta la storia di Roma, ad avere il privilegio di offrire, in virtù della loro impresa, le “spoglie opime” all’arcaica Triade Capitolina, cioè quelle spolia quae dux populi Romani duci hostium detraxit.
LE FESTE ROMANE DELLA GUERRA E IL “BELLUM IUSTUM”
L’anno militare procedendo da Marzo a Ottobre, già il 27 febbraio (Equirria) si svolgono importanti corse di cavalli nel circo in onore di Marte (che ha proprie feriae due giorni dopo), nuovamente ripetute il 14 del mese successivo.
Un Agonium Martiale, cioè l’offerta di un montone al Dio il giorno 17, precede la cerimonia di produzione delle delle armi del 19 (Quinquatrus) e la consacrazione delle trombe di guerra del 23 (Tubilustrium): cerimonia, quest’ultima, ripetuta il 23 maggio, ma questa volta sotto la tutela di Vulcano.
Ma la guerra necessariamente reca con sé qualcosa di “sacrilego”, perché l’uso immoderato della violenza rischia di provocare l’ira degli Dèi celesti. Si tratta, dunque, non solo di “fare la guerra”, ma di condurla nell’alveo delle regole, inserendola nella sfera del fas. A ciò avrebbe provveduto, in primo luogo, il diritto (lo ius fetiale e quello pontifìcum) e poi opportune cerimonie di lustrazione al termine delle campagne militari.
Innanzitutto, ai cittadini era consentito combattere solo in quanto milites e, per questo, essi erano vincolati da un giuramento solenne (sacramentum militiae) che li legava al proprio comandante e quindi alla sfera del sacro di cui era supremo tutore Iuppiter. Solo in questo modo il miles che uccide, in condizioni di iustum bellum, non è un omicida. I Sacerdotes Fetiales avrebbero determinato le varie condizioni per cui un bellum si sarebbe potuto considerare iustum, cioè tale da potersi intraprendere in maniera legittima. I requisiti formali e sostanziali del bellum iustum derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius Fetiale e in motivazioni validamente determinabili e riconoscibili come tali in maniera oggettiva, sia nei confronti degli dèi che degli uomini. Il principio illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta (Cic., De re publ. 3, 35) frena l’arbitrio e la cupidigia del popolo romano e ne assicura la legittimazione religiosa dell’imperium universale.
In ottobre, al termine della stagione guerriera, già il primo del mese un pubblico sacrificio viene offerto al Tigillum Sororium, uno strano passaggio (ianus) presso le are di Giano Curiazio e di Giunone Sorella, a ricordo dell’espiazione del giovane Orazio che, ancor ebbro di sangue e furor marziale, aveva massacrato la propria sorella dopo aver ucciso in singolare tenzone i tre Curiazi. E se alle Idi un cavallo possente, il “cavallo d’Ottobre”, era sacrificato al dio della guerra dal suo Flamine, gli eserciti tornati in Città lordi del sangue proprio e dei nemici avrebbero lustrato, cioè purificato con rami di alloro se stessi e le armi, durante la cerimonia del 19 (Armilustrium) al Lauretum sul monte Aventino.
La cerimonia del Tigillum, di cui la gens Horatia fu depositaria sinché esistette, e le altre mostrazioni di questo mese, segnavano allora la fine della stagione militare. I milites, i guerrieri dominati dal furor di Marte scatenato, tornavano Quirites, cioè cittadini in pieno possesso dei diritti civili e sociali: dunque sotto la tutela di Quirino, che è “il Marte che presiede la pace”. Dal momento che quest’ultima – non ci stancheremo di ripeterlo – risiede nell’accordo armonioso tra uomini e dèi: la pax deorum.
IL CULTO DELLE “AQUILE”
In quel punto dell’accampamento militare chiamato Principia si erigeva il Tabernaculum. La tenda ove si custodivano le insegne, le immagini degli Dèi e, in epoca imperiale, quelle dei principi regnanti. Davanti a quella tenda si trovava l’ara sacrificale su cui appositi sacerdoti e i loro assistenti, dopo la presa degli auspici, effettuavano, su ordine del comandante, atti rituali.
Se nei castra il miles poteva onorare il genius loci, quello della stessa legione ed anche – nel caso di un campo stanziale – i propri Lari, un culto del tutto particolare e prettamente militare era quello rivolto alle insegne e specialmente all’Aquila, insegna principale della legione e a cui si tributavano grandi onori in caso di vittoria e che era protetta a costo della vita in caso di sconfitta. Le truppe romane in tempi remoti portavano molti animali sulle loro insegne; si trovano anche lupi, cavalli, cinghiali e minotauri. Sarà Caio Mario ad elevare l’aquila, che già da qualche anno era privilegiata ad unica insegna obbligatoria. Da quel momento le aquile furono interpretate quali potenze divine protettrici delle legioni; a parte il culto loro tributato, l’anniversario della consegna al reparto era festeggiato come giorno di fondazione della legione stessa.
L’aquila, serrante fra gli artigli i fulmini di Giove e rappresentata spesso come sul punto di spiccare il volo, procedeva sempre davanti all’esercito; se andava perduta, la legione stessa era annientata. Il signifer (aquilifer, nel caso dell’aquila), il portatore d’insegna della legione, recava sulle spalle una pelle di lupo, usandone il teschio ferino come copricapo; la pelle si allacciava davanti alla gola e sul ventre con le zampe. Era, questo singolare vestiario atto ad incutere timore al nemico, il relitto storico di quella tradizione guerriera antichissima che si è cercato di delineare all’inizio del nostro discorso.
Sul significato dell’aquila e la responsabilità dell’aquilifer, è illuminante il seguente resoconto di Caio Giulio Cesare (Bell. Gall. IV, 25), allorché narra delle difficoltà connesse allo sbarco in Britannia di fronte alle bianche scogliere di Dover: “ma poiché i nostri soldati esitavano soprattutto a causa della profondità del mare, l’aquilifero della X legione, invocati gli Dèi perché propizio fosse il suo gesto per la sua legione, “saltate giù” gridò “o commilitoni, se non volete consegnare l’aquila ai nemici. Io, almeno, farò il mio dovere di fronte alla repubblica e al comandante”. Ciò detto a gran voce, si gettò giù dalla nave e si mosse con l’aquila verso i nemici. Allora i nostri, incoraggiatisi a vicenda, per non macchiarsi di un’onta cosi grave, tutti saltarono dalle navi. E come i soldati ch’erano sulle navi vicine li videro, seguitone l’esempio si avvicinarono ai nemici”.
Ancora le aquilae sono al centro di un episodio significativo verificatosi il 10 agosto del 70 d.C. I Romani hanno appena conquistato il tempio di Gerusalemme, andato distrutto in un rovinoso incendio che ben poco ha risparmiato. La sera stessa i soldati acclamano Tito come Imperator e offrono sacrifici alle aquilae nel cortile esterno dell’edificio (Svet., Titus 5, 2; Jos. Flav., Bell. Jvd. 6, 316; Orosio 7, 9). Ultimo atto di una dissacrazione che viene rimpianta dai discendenti dei Giudei da quasi duemila anni? Non ancora: perché proprio qui Adriano erigerà il tempio di Giove della nuova Aelia Capitolina…
Ancora nella tarda Notitia Dignitatum (V sec. d.C), nelle insegne degli Ioviani e degli Herculiani iuniores comparirà l’aquila, non disgiunta dal simbolo solare, comprensibile, dal momento ch’essa è un animale sacro al Dio della luce per eccellenza e il contrassegno della regalità. Costantino avrebbe tentato di sostituirvi il monogramma cristico, ma – pare di capire – con scarso successo, soprattutto dopo la riforma eliocentrica di Giuliano.
UN “EXEMPLUM VIRTUTIS”
Nella legione romana di epoca storica il furor delle antiche schiere indoeuropee, quelle di Romolo e Tullo Ostilio, è un ricordo di tempi quasi mitici e rimane circoscritto in ristretti ambiti rituali. Pur sempre sotto il segno di Marte, al furor sono sottentrate la disciplina e la virtus, di pari passo con l’estensione dell’idea di res publica come ordinamento religioso civile e militare in cui può trovare conciliazione ogni contraddizione.
Durante l’impero diverrà un luogo comune contrapporre il furor belli e la ferocia dei barbari all’ardore disciplinato dei legionari romani. Ma sarà la virtus ad imporsi gradatamente, mentre il furor si esaurirà da sé per il suo stesso eccesso.
Agli albori della repubblica, al tempo di L. Sicinio Dentato, che alcuni dicono fosse il primo, semileggendario, tribuno della plebe, virtus e furor forse si mischiavano in giusto equilibrio. E con questo exemplum di valore dell’antico tribuno, degno di memoria, dice Gellio (II, 11), per le sue ardue imprese, ci piace concludere questo capitolo che al “Popolo di Marte” abbiamo voluto dedicare:
“È scritto nei libri degli Annali che L. Sicinio Dentato, il quale fu tribuno della plebe sotto il consolato di spurio Tarpeio e Aulo Aternio, fu un guerriero valoroso più di quanto si possa credere e che gli fu dato un soprannome a causa del suo straordinario valore e fu chiamato l’Achille Romano. Si dice che egli combatté contro il nemico centoventi battaglie, non riportò nessuna cicatrice nel dorso ma quarantacinque davanti, che ricevette in dono otto corone d’oro, una “ossidionale”, tre “murali”, quattordici “civiche”, ottantatré collane, più di centosessanta braccialetti, diciotto aste; e così pure ricevette in dono falere per venticinque volte; ebbe numerose spoglie militari e fra queste parecchie “di sfida”; celebrò nove trionfi al seguito dei suoi comandanti”.