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POLIFILO E LA MISTICA DELLA RINASCENZA

di ROSANNA PERUZZO.

Estratto da “La Dea volta al maschile”. 
Edizioni Arŷa, Genova 2016.

Vediamo ora il misterioso significato fondamentale e rivelativo di questi Di Digidii. L’altra denominazione fratres Depidii risulta ancora, sostanzialmente, oscura. Arnobio (A.N. 3, 41): “I Digidii sono un calco del greco Daktyloi. Sono cinque come le dita della mano e si legano al culto dei Cabiri di Samotracia” (Digitos Samotracios quos quinque indicant Graeci Idaeos Dactilos noncupari). Significativo il verbo noncu-pari; fa parte del lessico religioso. G. Capdeville segnala: “Digidii o Digitii hanno la stessa radice di digitus”. Mastrocinque li identifica con probabili Lares Praestites di Preneste e ne rileva il nesso Fortuna-Rea per cui ai Dattili Idei, allevatori di Zeus, potrebbero corrispondere a Preneste i Digidii, Dèi fratelli della vergine genitrice e nutritori di altre vestali allevatrici di Ceculo, fondatore dell’abitato. A Preneste la città è il santuario stesso, dedicato alla dea Fortuna Primigenia o Protogonos, Fors Fortuna, termini che uniscono insieme un concetto di fecondità e di sorte. Brelich parla di un castissimo culto di una vergine feconda e madre casta. Essa si pone prima della differenziazione dei sessi, primogeneità indifferenziata. Per lo studioso “la ricchezza e varietà del linguaggio cultuale arcaico, i singoli elementi del culto evocano una realtà per così dire pre-cosmica, indifferenziata e germinale che è soltanto condizione di una ‘futura’ organizzazione cosmica; Iuppiter e Iuno infanti pendono dalle sue mammelle”; lo afferma Cicerone.1 Essi sono appena nati in una grotta dove stilla acqua, elemento caotico, germinale e oracolare. Il culto, dunque, per le origini del fondatore della città, si riconnette ai Cabiri di Samotracia, testimoniando la presenza del misterioso popolo dei Pelasgi, di gran lunga più antico dei Latini stessi.

La dea madre per i Cabiri era Cabira. Nome, aggiunge Kerényi, che nella lingua greca fu tradotto con Rea (si veda quanto affermato da Mastrocinque) e con Demetra (Dâ Meter), con Ecate e con Afrodite. Si esamini con attenzione quanto viene a dirci Kerényi: una dea vecchia corrispondente a Demetra-Rea, una dea dell’Amore, una dea lunare e oscura, legata all’Ade, sotto la forma di Ecate-Proserpina-Core.

Come poteva Cabira identificarsi con tutto questo? Ascoltiamo quanto lo studioso viene a dire altrove, a proposito di che cosa i Cabiri intendessero con Mysteria: “completamente indicibile rimaneva ciò che era più indicibile, il centro stesso dei Mysteria, la loro vera grande dea che già nelle figure di Demetra e di sua figlia, appariva in un certo qual modo in forma impropria. Essa regnava sulla festa quale Arretos Kura: la fanciulla indicibile”. È qui delineato il principio che sta alla base dei mysteria: tanti nomi che riportano ad una dea sola. Essa può conciliare in sé la madre, la figlia e la dea dell’amore. Una triade: nelle origini dell’indifferenziato religioso, una sola Grande Madre.

Di queste differenti nature, quella forse più in ombra a Preneste appare la dea nera, ma certamente il culto dei Digidii legava la divinità anche a questa sfera, la più oscura e taciuta forse perché la più legata al mondo esoterico delle iniziazioni. Ecco un altro motivo, oltre al culto di Giove infante, che rese a lungo e con alterna sorte, invisa all’Urbe la dea Fortuna, finché non si riuscì ad assimilarla alla mentalità di Roma, attenta a sondare solo la situazione presente, per confermarvi la propria azione, poco propensa alla fatalistica estrazione delle sortes, in cui l’azione e il coraggio del vir nulla possono e per nulla incide sul fato già scritto una forte volontà di cambiamento. Il foedus, l’operazione stessa del rito garantiscono la fiducia (fides). Bene operando, gli dèi sono favorevoli, sempre. Errando, resta possibile la correzione al mal operato. Il futuro rimane in sostanza aperto ad ogni soluzione o correzione possibile, essendo Giove legge egli stesso, libero, egli solo, dalle catene della greca Necessità. Il tempio dell’area sacra di Largo di Torre Argentina dedicato Fortunae huiusce diei, “la Sorte di questo giorno”: “dell’oggi”, ne è un chiaro esempio. Resta da determinare nel diritto quale valenza avesse l’istituzione della sortitio, se pubblica o anche religiosa almeno fino all’Impero.1 Qualora si trattasse della seconda ipotesi avremmo anche nelle leggi di Roma la penetrazione di un concetto giuridico ad essa estraneo, legato alla sacralità delle sortes e probabilmente si tratterebbe di un’istituzione introdotta dalla monarchia etrusca, forse da Servio Tullio. Dalla dea quel re era visitato, secondo Plutarco,2 attraverso una finestrella ogni notte. Il ricorso alle sortes fu comunque molto limitato. Sappiamo che nel 241 a. C. il senato proibì a Q. Lutazio Cerco la consultazione dell’oracolo di Preneste.

Roma appare attenta a sondare solo la situazione presente, per conformarvi la propria azione. Circa l’oracolo, esso era accessibile in soli due giorni all’anno: l’11 e il 12 aprile; le sortes, tavolette di rovere, insculptae priscarum litterarum notis, lettere di un alfabeto sconosciuto, erano estratte dalla mano ingenua di un bambino e predicevano il futuro. Un sogno aveva guidato il suo scopritore Numerius Suffistius alla roccia da cui erano scaturite. Erano state poi chiuse in un’urna, ricavata da un vicino ulivo stillante miele di buon auspicio.

Interessanti le considerazioni sulla radice di Numerius, che si lega etimologicamente al re Numa. Tale sovrano fu indicato, con vistoso errore cronologico, quale discepolo di Pitagora. Ebbe forse conoscenze magico-religiose di un sapienziale legato ai numeri; del resto i Digidii risultano maestri di antichissime conoscenze magico-operative, esplicate nell’uso iniziatico delle dita, con riferimento anche alla numerologia. Il nome Pompilio, tra l’altro, conterrebbe in lingua osca, nel suo etimo, il numero sacro alla Grande Madre: il cinque. Cinque sono i Digidii Daktyloi, dita della mano, cinque i petali del melo e delle rosacee, cinque le punte delle foglie del platano, della vite e dell’edera sacre alla divinità. È sacro alla dea soprattutto il pentalfa, rappresentazione allegorica dell’uomo, il cosiddetto “uomo di Vitruvio”. Ricordiamo nella Roma rinascimentale l’istituzione dell’Accademia Vitruviana, che alla luce di quanto esposto, assume un ben più profondo significato. Il pentalfa è figura geometrica che ripropone in ogni sua parte il rapporto aureo, ritenuto dai Pitagorici firma divina dell’Universo.

Fortuna, protettrice degli artefici e fabbri, in origine suoi divini figli (chiaro rapporto che la lega a Vulcano), è anche la dea dei naviganti nel mare in tempesta. Non è un caso che nella lingua italiana “fortunale” indichi una tempesta marina. I Dioscuri che apparivano ai naviganti, cristianamente sostituiti dai “fuochi di Sant’Elmo”, erano in origine due Cabiri I “Digidii”, nani e giganti, grandi dèi.

Cosa raccontano i miti di questi bizzarri esseri divini che sono dita, falli e larve legate all’Ade e ancora ronzante mormorio di api quando si apprestano, in quanto potenze seminali, a dare nuova vita?

E forse passarono nei culti latini con forme analoghe ai Lari? Presiedono col Cabiro Hermes all’eterno ciclo di vita e morte, attraverso due porte: 

“l’una che scende verso Borea ed è per gli uomini,
l’altra verso Noto… per là
non entrano gli uomini, che è la via degli immortali”.

E chi è iniziato, dopo la morte, sa distinguere la Porta dell’Oblio da quella della Memoria, per operare la scelta giusta. La danza che mima ed accompagna questo eterno ciclo, fu detta maro ed ha un andamento oscillante come quello dei naviganti scesi a terra dopo una lunga traversata.

Possibile che nelle danze degli Arvali e dei Salii fosse fluito qualche dimenticato richiamo ad essa. Sul monte Ida la Grande Madre, appoggiandosi alla roccia, nello sforzo del parto, diede vita anche a loro. Essi non sono che il calco delle sue divine dita. In una concezione evemeristica si direbbe: l’uomo, scoperta la potenza del suo pollice opponibile – l’Eracle dattilico –, ne fece, con gli altri suoi quattro compagni, delle divinità. Medici, fabbri legati al Cabiro Efesto, maghi legati all’altrettanto Cabiro Hermes. Musici, essi hanno avuto tra gli iniziati Orfeo stesso. Ed anche Cadmo che, restituendo a Zeus la folgore e il fascio dei suoi nervi, aprì il tempo breve ed irripetibile degli Eroi, fu dai Cabiri iniziato a Samotracia e vi sposò la “divina” Armonia.

Gli “indigitamenta”

Potrà forse stupire ma l’antico sapienziale dei Digidii Daktiloi, magico-conoscitivo ed operativo, è passato a Roma nell’operazione sacrale più misteriosa, per noi moderni, indicata come indigitamenta. Si veda R. Del Ponte, Aspetti del lessico pontificale: “Paolo Diacono nel suo commento a Festo, può asserire che gli indigitamenta ‘sono formule incantatorie’ (incantamenta) e dei ‘segni’ (indicia)”. Nei libri pontificali erano conservati i nomi con cui indigitare gli dèi, cioè chiamarli a protezione col giusto nome per la funzione richiesta. È molto probabile che l’espressione Di Indigetes non volesse dire “dèi indigeni” ma “dèi invocati, mentre si compie un gesto o una pressione con le dita”. Si può pensare che ciascuna lettera del nome invocato corrispondesse figurativamente al gesto con cui si indicava un certo numero, come ci fa capire Marziano Capella nel suo De Nuptiis Philologiae et Mercurii (VII, 728–729). Più credibile che si trattasse di un sistema molto complesso come quello assunto dagli Orfici3 e magari si risentisse anche di teorie pitagoriche. Sappiamo che nell’antichità certe dita della mano destra indicavano strumenti di fabbri quali incudine, martello, coltello, cuneo. Ci se ne serviva per gesti religiosi come la benedizione detta “della dea Mirina”, che è passata nei culti cristiani a simbolo della Trinità: tre dita alzate della mano destra, le altre due piegate.4 La si ritrova nella facciata esterna del Duomo di Carrara, legata ai Maestri Commacini. Particolare che potrebbe non avere significanza specifica, nel film di Lee il gigante nero stabilisce con il bambino italiano un elementare codice di comunicazione attraverso leggeri colpi di mano sulla spalla.

Nascita di Minerva-Atena, dea “irretita”

Resta ancora da provare una derivazione, attraverso culti risalenti ai Pelasgi, di Pallade Atena, dall’antica dea Cabira. Erodoto ricorda che gli Ateniesi erano Pelasgi e cambiarono lingua quando furono assorbiti dalla famiglia greca.1 Sembra che Aristotele (in Herpocratio Grammaticus) sostenesse che nel culto di Atena si celebrasse in realtà la luna. Il Graves vede in Atena una dea dal triplice aspetto e se queste caratteristiche si riferiscono alle fasi della luna, riportano anche alla triplice dea Cabira.

Ebbe Atena l’appellativo di Meter e, come tale, corrisponde alla fase della luna calante che invecchia nel cielo fino a sparire. In questo aspetto è la Vegliarda, assistita dalla civetta dorata e dal corvo, che da bianco lei rese nero.3 Molto si avvicina alla Prosinna degli antichi Misteri di Lerna e alla romana Anna Peranna o Perenna. Si capirebbe ancor meglio la beffa che Anna Perenna (OV., Fasti III) gioca a Marte, invaghito di Minerva, andando lei all’incontro amoroso del dio, di cui doveva farsi mezzana. Miti greci arcaici, tra l’altro, raccontano di Atena concupita da Ares, Poseidone, Borea ed Efesto. 

A Marte, l’intoccabile vergine, offrirebbe la vecchia che è pur se stessa. Atena è anche Core o Ecate, la luna nera. S’identifica in questa fase con Aglauro: il lato oscuro tragico della dea, lato simile, dice Kerényi, a Persefone. È l’Atena nera. La cesta in cui, secondo la tradizione, la dea pose Erittonio, primo re della città, è particolarmente simile a quella misterica; da essa sguscia la testa di una serpe ed Erittonio aveva gambe di serpente ed era figlio di Efesto. Un serpente era lo spirito della città e stava nell’Eretteo, nutrito, una volta al mese, con focacce gron-danti miele, alimento sacro come la lunare spermatica rugiada. Una serpe sta accanto allo scudo di Atena e si dice fosse quella che esce dalla cesta iniziatica. L’oscurità accompagna entro un cunicolo le Ersefore o Arrefore, portatrici di rugiada o delle cose indicibili (arreta). Esse non sanno che cosa portano in testa, né la sacerdotessa, che affida loro i sacri oggetti, sa. Alla fine del cunicolo, depongono quanto loro affidato e riportano indietro, sempre senza sapere, un’altra cosa, tutta ravvolta in fasce.1 Riti che appaiono vicini a quelli degli antichi Cabiri ed anche alle successive iniziazioni dionisiache.

Se la Meter corrisponde alla fase di luna calante fino alla luna nera, dove madre e figlia coincidono, esisteva anche un figura centrale, che fu soppressa dalla sopravvenuta cultura patriarcale degli Elleni: è la Ninfa, luna crescente, tesa a raggiungere, come un grembo di donna, la gravida pienezza. Indiscutibilmente in quest’aspetto è la Dea dell’Amore.

Vediamo ora il misterioso significato fondamentale e rivelativo di questi Di Digidii. L’altra denominazione fratres Depidii risulta ancora, sostanzialmente, oscura. Arnobio (A.N. 3, 41): “Digidii sono un calco del greco Daktyloi. Sono cinque come le dita della mano e si legano al culto dei Cabiri di Samotracia” (Digitos Samotracios quos quinque indicant Graeci Idaeos Dactilos noncupari). Significativo il verbo noncu-pari; fa parte del lessico religioso. G. Capdeville segnala: “Digidii o Digitii hanno la stessa radice di digitus”. Mastrocinque li identifica con probabili Lares Praestites di Preneste e ne rileva il nesso Fortuna-Rea per cui ai Dattili Idei, allevatori di Zeus, potrebbero corrispondere a Preneste i Digidii, Dèi fratelli della vergine genitrice e nutritori di altre vestali allevatrici di Ceculo, fondatore dell’abitato. A Preneste la città è il santuario stesso, dedicato alla dea Fortuna Primigenia o ProtogonosFors Fortuna, termini che uniscono insieme un concetto di fecondità e di sorte. Brelich parla di un castissimo culto di una vergine feconda e madre casta. Essa si pone prima della differenziazione dei sessi, primogeneità indifferenziata. Per lo studioso “la ricchezza e varietà del linguaggio cultuale arcaico, i singoli elementi del culto evocano una realtà per così dire pre-cosmica, indifferenziata e germinale che è soltanto condizione di una ‘futura’ organizzazione cosmica; Iuppiter e Iuno infanti pendono dalle sue mammelle”; lo afferma Cicerone.1 Essi sono appena nati in una grotta dove stilla acqua, elemento caotico, germinale e oracolare. Il culto, dunque, per le origini del fondatore della città, si riconnette ai Cabiri di Samotracia, testimoniando la presenza del misterioso popolo dei Pelasgi, di gran lunga più antico dei Latini stessi.

La dea madre per i Cabiri era Cabira. Nome, aggiunge Kerényi, che nella lingua greca fu tradotto con Rea (si veda quanto affermato da Mastrocinque) e con Demetra (Dâ Meter), con Ecate e con Afrodite. Si esamini con attenzione quanto viene a dirci Kerényi: una dea vecchia corrispondente a Demetra-Rea, una dea dell’Amore, una dea lunare e oscura, legata all’Ade, sotto la forma di Ecate-Proserpina-Core.

Come poteva Cabira identificarsi con tutto questo? Ascoltiamo quanto lo studioso viene a dire altrove, a proposito di che cosa i Cabiri intendessero con Mysteria: “completamente indicibile rimaneva ciò che era più indicibile, il centro stesso dei Mysteria, la loro vera grande dea che già nelle figure di Demetra e di sua figlia, appariva in un certo qual modo in forma impropria. Essa regnava sulla festa quale Arretos Kura: la fanciulla indicibile”. È qui delineato il principio che sta alla base dei mysteria: tanti nomi che riportano ad una dea sola. Essa può conciliare in sé la madre, la figlia e la dea dell’amore. Una triade: nelle origini dell’indifferenziato religioso, una sola Grande Madre.

Di queste differenti nature, quella forse più in ombra a Preneste appare la dea nera, ma certamente il culto dei Digidii legava la divinità anche a questa sfera, la più oscura e taciuta forse perché la più legata al mondo esoterico delle iniziazioni. Ecco un altro motivo, oltre al culto di Giove infante, che rese a lungo e con alterna sorte, invisa all’Urbe la dea Fortuna, finché non si riuscì ad assimilarla alla mentalità di Roma, attenta a sondare solo la situazione presente, per confermarvi la propria azione, poco propensa alla fatalistica estrazione delle sortes, in cui l’azione e il coraggio del vir nulla possono e per nulla incide sul fato già scritto una forte volontà di cambiamento. Il foedus, l’operazione stessa del rito garantiscono la fiducia (fides). Bene operando, gli dèi sono favorevoli, sempre. Errando, resta possibile la correzione al mal operato. Il futuro rimane in sostanza aperto ad ogni soluzione o correzione possibile, essendo Giove legge egli stesso, libero, egli solo, dalle catene della greca Necessità. Il tempio dell’area sacra di Largo di Torre Argentina dedicato Fortunae huiusce diei, “la Sorte di questo giorno”: “dell’oggi”, ne è un chiaro esempio. Resta da determinare nel diritto quale valenza avesse l’istituzione della sortitio, se pubblica o anche religiosa almeno fino all’Impero.1 Qualora si trattasse della seconda ipotesi avremmo anche nelle leggi di Roma la penetrazione di un concetto giuridico ad essa estraneo, legato alla sacralità delle sortes e probabilmente si tratterebbe di un’istituzione introdotta dalla monarchia etrusca, forse da Servio Tullio. Dalla dea quel re era visitato, secondo Plutarco,2 attraverso una finestrella ogni notte. Il ricorso alle sortes fu comunque molto limitato. Sappiamo che nel 241 a. C. il senato proibì a Q. Lutazio Cerco la consultazione dell’oracolo di Preneste.

Roma appare attenta a sondare solo la situazione presente, per conformarvi la propria azione. Circa l’oracolo, esso era accessibile in soli due giorni all’anno: l’11 e il 12 aprile; le sortes, tavolette di rovere, insculptae priscarum litterarum notis, lettere di un alfabeto sconosciuto, erano estratte dalla mano ingenua di un bambino e predicevano il futuro. Un sogno aveva guidato il suo scopritore Numerius Suffistius alla roccia da cui erano scaturite. Erano state poi chiuse in un’urna, ricavata da un vicino ulivo stillante miele di buon auspicio.

Interessanti le considerazioni sulla radice di Numerius, che si lega etimologicamente al re Numa. Tale sovrano fu indicato, con vistoso errore cronologico, quale discepolo di Pitagora. Ebbe forse conoscenze magico-religiose di un sapienziale legato ai numeri; del resto i Digidii risultano maestri di antichissime conoscenze magico-operative, esplicate nell’uso iniziatico delle dita, con riferimento anche alla numerologia. Il nome Pompilio, tra l’altro, conterrebbe in lingua osca, nel suo etimo, il numero sacro alla Grande Madre: il cinque. Cinque sono i Digidii Daktyloi, dita della mano, cinque i petali del melo e delle rosacee, cinque le punte delle foglie del platano, della vite e dell’edera sacre alla divinità. È sacro alla dea soprattutto il pentalfa, rappresentazione allegorica dell’uomo, il cosiddetto “uomo di Vitruvio”. Ricordiamo nella Roma rinascimentale l’istituzione dell’Accademia Vitruviana, che alla luce di quanto esposto, assume un ben più profondo significato. Il pentalfa è figura geometrica che ripropone in ogni sua parte il rapporto aureo, ritenuto dai Pitagorici firma divina dell’Universo.

Fortuna, protettrice degli artefici e fabbri, in origine suoi divini figli (chiaro rapporto che la lega a Vulcano), è anche la dea dei naviganti nel mare in tempesta. Non è un caso che nella lingua italiana “fortunale” indichi una tempesta marina. I Dioscuri che apparivano ai naviganti, cristianamente sostituiti dai “fuochi di Sant’Elmo”, erano in origine due Cabiri I “Digidii”, nani e giganti, grandi dèi.

Cosa raccontano i miti di questi bizzarri esseri divini che sono dita, falli e larve legate all’Ade e ancora ronzante mormorio di api quando si apprestano, in quanto potenze seminali, a dare nuova vita?

E forse passarono nei culti latini con forme analoghe ai Lari? Presiedono col Cabiro Hermes all’eterno ciclo di vita e morte, attraverso due porte: 

l’una che scende verso Borea ed è per gli uomini,
l’altra verso Noto… per là
non entrano gli uomini, che è la via degli immortali
”.

E chi è iniziato, dopo la morte, sa distinguere la Porta dell’Oblio da quella della Memoria, per operare la scelta giusta. La danza che mima ed accompagna questo eterno ciclo, fu detta maro ed ha un andamento oscillante come quello dei naviganti scesi a terra dopo una lunga traversata.

Possibile che nelle danze degli Arvali e dei Salii fosse fluito qualche dimenticato richiamo ad essa. Sul monte Ida la Grande Madre, appoggiandosi alla roccia, nello sforzo del parto, diede vita anche a loro. Essi non sono che il calco delle sue divine dita. In una concezione evemeristica si direbbe: l’uomo, scoperta la potenza del suo pollice opponibile – l’Eracle dattilico –, ne fece, con gli altri suoi quattro compagni, delle divinità. Medici, fabbri legati al Cabiro Efesto, maghi legati all’altrettanto Cabiro Hermes. Musici, essi hanno avuto tra gli iniziati Orfeo stesso. Ed anche Cadmo che, restituendo a Zeus la folgore e il fascio dei suoi nervi, aprì il tempo breve ed irripetibile degli Eroi, fu dai Cabiri iniziato a Samotracia e vi sposò la “divina” Armonia.

Gli “indigitamenta”

Potrà forse stupire ma l’antico sapienziale dei Digidii Daktiloi, magico-conoscitivo ed operativo, è passato a Roma nell’operazione sacrale più misteriosa, per noi moderni, indicata come indigitamenta. Si veda R. Del Ponte, Aspetti del lessico pontificale: “Paolo Diacono nel suo commento a Festo, può asserire che gli indigitamenta ‘sono formule incantatorie’ (incantamenta) e dei ‘segni’ (indicia)”. Nei libri pontificali erano conservati i nomi con cui indigitare gli dèi, cioè chiamarli a protezione col giusto nome per la funzione richiesta. È molto probabile che l’espressione Di Indigetes non volesse dire “dèi indigeni” ma “dèi invocati, mentre si compie un gesto o una pressione con le dita”. Si può pensare che ciascuna lettera del nome invocato corrispondesse figurativamente al gesto con cui si indicava un certo numero, come ci fa capire Marziano Capella nel suo De Nuptiis Philologiae et Mercurii (VII, 728–729). Più credibile che si trattasse di un sistema molto complesso come quello assunto dagli Orfici3 e magari si risentisse anche di teorie pitagoriche. Sappiamo che nell’antichità certe dita della mano destra indicavano strumenti di fabbri quali incudine, martello, coltello, cuneo. Ci se ne serviva per gesti religiosi come la benedizione detta “della dea Mirina”, che è passata nei culti cristiani a simbolo della Trinità: tre dita alzate della mano destra, le altre due piegate.4 La si ritrova nella facciata esterna del Duomo di Carrara, legata ai Maestri Commacini. Particolare che potrebbe non avere significanza specifica, nel film di Lee il gigante nero stabilisce con il bambino italiano un elementare codice di comunicazione attraverso leggeri colpi di mano sulla spalla.

Nascita di Minerva-Atena, dea “irretita”

Resta ancora da provare una derivazione, attraverso culti risalenti ai Pelasgi, di Pallade Atena, dall’antica dea Cabira. Erodoto ricorda che gli Ateniesi erano Pelasgi e cambiarono lingua quando furono assorbiti dalla famiglia greca.1 Sembra che Aristotele (in Herpocratio Grammaticus) sostenesse che nel culto di Atena si celebrasse in realtà la luna. Il Graves vede in Atena una dea dal triplice aspetto e se queste caratteristiche si riferiscono alle fasi della luna, riportano anche alla triplice dea Cabira.

Ebbe Atena l’appellativo di Meter e, come tale, corrisponde alla fase della luna calante che invecchia nel cielo fino a sparire. In questo aspetto è la Vegliarda, assistita dalla civetta dorata e dal corvo, che da bianco lei rese nero.3 Molto si avvicina alla Prosinna degli antichi Misteri di Lerna e alla romana Anna Peranna o Perenna. Si capirebbe ancor meglio la beffa che Anna Perenna (OV., Fasti III) gioca a Marte, invaghito di Minerva, andando lei all’incontro amoroso del dio, di cui doveva farsi mezzana. Miti greci arcaici, tra l’altro, raccontano di Atena concupita da Ares, Poseidone, Borea ed Efesto. 

A Marte, l’intoccabile vergine, offrirebbe la vecchia che è pur se stessa. Atena è anche Core o Ecate, la luna nera. S’identifica in questa fase con Aglauro: il lato oscuro tragico della dea, lato simile, dice Kerényi, a Persefone. È l’Atena nera. La cesta in cui, secondo la tradizione, la dea pose Erittonio, primo re della città, è particolarmente simile a quella misterica; da essa sguscia la testa di una serpe ed Erittonio aveva gambe di serpente ed era figlio di Efesto. Un serpente era lo spirito della città e stava nell’Eretteo, nutrito, una volta al mese, con focacce gron-danti miele, alimento sacro come la lunare spermatica rugiada. Una serpe sta accanto allo scudo di Atena e si dice fosse quella che esce dalla cesta iniziatica. L’oscurità accompagna entro un cunicolo le Ersefore o Arrefore, portatrici di rugiada o delle cose indicibili (arreta). Esse non sanno che cosa portano in testa, né la sacerdotessa, che affida loro i sacri oggetti, sa. Alla fine del cunicolo, depongono quanto loro affidato e riportano indietro, sempre senza sapere, un’altra cosa, tutta ravvolta in fasce.1 Riti che appaiono vicini a quelli degli antichi Cabiri ed anche alle successive iniziazioni dionisiache.

Se la Meter corrisponde alla fase di luna calante fino alla luna nera, dove madre e figlia coincidono, esisteva anche un figura centrale, che fu soppressa dalla sopravvenuta cultura patriarcale degli Elleni: è la Ninfa, luna crescente, tesa a raggiungere, come un grembo di donna, la gravida pienezza. Indiscutibilmente in quest’aspetto è la Dea dell’Amore.

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