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ALCUNE RIFLESSIONI SUI SIMBOLI “INIZIATICI” E LA LORO VALENZA

di ROSANNA PERUZZO.

Estratto da “La dea volta al maschile”.
Edizioni Arŷa, Genova 2014. 

Il Convegno Nazionale tenuto a Lecce (1 – 2 maggio 2009), su di una tematica: “la Donna, il Sacro, l’iniziazione”, già affrontata quindici anni orsono nel I° Forum Internazionale (Firenze, 4 – 5 giugno 1994), si è rivelato di estremo interesse. Stimolante campanello d’allarme, che forse sarebbe meglio non ignorare, in quanto, storicamente, la consapevolezza di un problema è sempre stata raggiunta quando questo è pervenuto alla sua fase ultima e sta aprendosi, più o meno drammaticamente, soluzioni nuove. La situazione sociale anche in Italia è radicalmente mutata; non si è ancora in grado di prevedere – è pur vero– quale riflesso avrà la crisi economica che stiamo vivendo, ma ben difficilmente potrà prodursi per la donna un semplice regresso a ruoli che ormai vengono indicati come non più in linea con i tempi.
 

Lady Sunflowers, la donna-girasole, una sorta di mitica Clizia, che articola e condiziona la propria vita in riferimento ad una presenza maschile e di questa ha bisogno per realizzarsi, supportandola delle proprie difficoltà e delegandola alla sua rappresentazione nel sociale e nel mondo politico, sta tramontando. Si veda a tal proposito, della psicologa Gianna Schelotto, “Un uomo purchessia. Donne in attesa di felicità”, in uscita per la Mondadori.
 

È giunto il momento per “l’altra metà del cielo” di riprendere consapevolezza di sé, ridisegnando ruoli e scopi esistenziali, che non tendano a prevaricare quelli maschili, come poteva sembrare nel primo femminismo, ma si pongano autonomi e differenziati su di un piano paritario di uguaglianza. La società, infatti, nel chiamare la donna a fiancheggiare l’uomo nei vari settori lavorativi, ne ha prodotto un inevitabile cambiamento, ma non ha saputo offrirle, come succede in ogni epoca di transizione, che un’identificazione provvisoria in schemi ormai superati e di natura sostanzialmente maschile.
 

E pur tuttavia da parte femminile sarebbe sciocco assecondare certi preconcetti che il pensiero maschilista ha un lungo caldeggiato, anche per proprio interesse di difesa, facendo leva sull’istintivo disagio femminile, avvertito al contatto con una dimensione iniziatica, che poco “pare” appartenere alle donne, retaggio di antiche corporazioni di arti e mestieri di natura schiettamente maschile o di tradizioni eroico – virili (Templari e Cavalleria in genere).
 

Perché il senso di non appartenenza può nascere anche da una superficiale comprensione dei simboli stessi. Esplicativo ci è parso uno scritto femminile del 1983, che tuttavia potrebbe ancora oggi essere condiviso da una buona parte del cosiddetto “sesso debole”: “Ci dica chi può, in ragione esoterica, sostenere che la mazza, la spada, i colpi di batteria, siano strumenti propri della natura femminile? (…) Sappiamo che la mazza, al pari dell’ascia bicuspide, apparteneva al dio della guerra: Thor, nei miti nordici. Ippolita, la regina delle Amazzoni, che ne aveva usurpato il possesso (sic), viene uccisa dall’Eroe: Eracle”. Un vero annientatore, l’Alcide, di culti iniziatici femminili – possiamo aggiungere noi –. Egli preclude alle donne il culto dell’Ara Maxima da lui istituito.
 

Si veda in Properzio, libro IV, ode IX, la tracotanza con cui non rispetta i sacri divieti di Bona Dea .Quanto riportato sembra risentire del pensiero di R. Guénon, che limitava la via iniziatica femminile alla sola arte del ricamo e della tessitura. La sacralità misterica degli strumenti iniziatici li immerge tuttavia nella luce accecante del mito (per noi greco–latino), scorporandoli in una infinità di valenze e spesso rivelandoli portatori di arcaiche tracce ginecocratiche.
 

E da qui nasce il nonsenso di una disquisizione senza fine sulle iniziazioni maschili o femminili (ai nostri giorni poi, quando sembra che sia stata proposta la legalizzazione di ben cinque sessi …). 
 

L’ascia appartenne alla Grande Madre. Precluso in origine ad uomo anche toccarla. Passò a Zeus per un tradimento di un divino servo della dea: Prometeo, Vulcano? Con questa si aprì la testa del dio, aiutandolo a partorire Atena, figlia di Metis, la Saggezza, da lui divorata. Atena stessa per i miti arcaici era la Grande Madre. Chiara indicazione l’inghiottimento e il conseguente parto virile di un passaggio dal potere matriarcale a quello patriarcale, in cui la donna viene riportata ad un controllo da parte del maschio guerriero vincitore.
 

Analogamente, l’uso dei littori con verghe è testimoniato essere già presente nei culti misterici di Andania delle Grandi Dee.
 

È forse ulteriore testimonianza di questo passaggio un’arcaica Nemesi, sposa di Zeus, che in origine reggeva una squadra. Ne serbò nelle rappresentazioni classiche il ricordo nella postura a squadra del braccio sinistro su cui sempre converge il suo sguardo, mentre ancora impugna nella destra la spada, simboli entrambi di un’equa ripartizione ai mortali, secondo i meriti.
 

E qui il discorso si allarga: è la mano a dare, conformemente alla propria natura (maschile o femminile), la valenza al sacro strumento? Esso è di natura misterica così duttile da piegarsi, assecondando chi lo impugna, a nuovo uso rituale?
 

Sembrerebbe attestarlo la leggenda romana di Valeria Luperca, che, trovatasi in mano per volere divino una martellina, la usa non come faber, ma per compiere operazioni magico-curative.
 

Ad impugnare nella mano sinistra un fuso, strumento per eccellenza donnesco, è uno splendido Giano Trifronte, duecentesco, fornito di petaso ermetico, ritrovato nel 1997 a Roma, durante i restauri di una parte del monumentale complesso dei Santi Quattro Coronati, nella cosiddetta “Aula Gotica”. Possibile che lo strumento nelle sue mani assumesse ben diversa significanza e si riferisse al suo tempio all’Argileto, divenuto in tarda età per la vicinanza di tre statue: Tria Fata o Parche, Templum Fatale. Rappresentazione importante visto che è stata supposta una qualche derivazione tra la rappresentazione del dio con le tre Fata e quella dei Santi Quattro Coronati.
 

Il culto dei Santi, divenuti patroni della Massoneria, sembra del resto teso nelle rappresentazioni della Basilica a rapportarsi a sacralità iconografiche anche femminili.
 

Memore forse che gli artefici più antichi, i fabbri, furono nel mito divini fiori e servitori di Cibele? È la memoria di una leggendaria civiltà, descritta come più tollerante, ugualitaria, rispetto al posteriore patriarcato, a spingere in tale direzione? Certo che le testimonianze offerte dai Santi Quattro non finiscono di stupire per la loro apertura. Sempre nell’“Aula Gotica” è venuta alla luce la sconcertante rappresentazione di Mithra uccisore del toro, pressoché unica in un contesto cristiano.

Nella sottostante Cappella di San Silvestro, sempre facente parte del complesso, ma proprietà dell’Università dei Marmorarii dal 1570 a tutt’oggi, in un arco la cui decorazione si collocherebbe tra il secolo XVIII e XIX, ai suoi estremi stanno effigiati due pilastri per parte. In entrambi i lati, nello spazio interno, un medaglione racchiude rappresentazioni di strumenti massonici (squadra, compasso, scalpelli, etc .).

 

Il simbolismo dei quattro pilastri allude chiaramente ai Santi Quattro. Al centro dell’arco si pone l’immagine di giovane donna biancovestita, con tiara e bastone papale. Santa Madre Chiesa, alla cui presenza femminile si rapportano i Quattro. E potremmo aggiungere, rappresentazione priva di pregiudizi, in un luogo dove aleggiava e ancora aleggia la leggenda del’uccisione della Papessa Giovanna. Evento storicamente mai provato o negato, a cui sembra alludesse in vicinanza il cosiddetto Vicus Papissae, esistente fino al XVI secolo.

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