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ANCORA SULLA RICEZIONE DI PLATONE NELL’OPERA DI JULIUS EVOLA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL MISTERO DEL GRAAL

di IGOR TAVILLA.

Estratto da “Arthos”.
N° 29 del 2020.
Edizioni Arŷa, Genova.

Una volta individuato il mito del Graal nei suoi elementi essenziali, Evola opera, in un’ottica comparatistica, una serie di riferimenti e rimandi a molteplici tradizioni indo-arie affidandosi a un metodo che lo stesso non manca di qualificare – per distinguerlo da altri approcci eruditi, siano essi letterari, etnologici o storici – “tradizionale” o “inter-tradizionale”.
 

L’autore non adotta pertanto un taglio narratologico, come se il mito fosse un semplice topos letterario, che ha avuto più o meno seguito in questa o quell’epoca, neppure cerca di ricondurne le molteplici varianti a un una matrice etnografica comune, tanto meno si prova a cogliere in esso il riflesso di avvenimenti o personaggi storici esistiti in illo tempore. Egli tenta piuttosto di rendere intelligibile la realtà simbolica e superstorica del mito facendo in modo che le diverse tradizioni, poste a confronto tra loro, si chiariscano a vicenda, illuminando le une i punti oscuri delle altre, colmando le une le lacune delle altre, in una circolarità ermeneutica virtuosa. 
 

Ne Il mistero del Graal, Evola attende anche a un’altra opera, non meno importante e complementare alla prima, di rettificazione dottrinaria, mettendo in evidenza che “i temi fondamentali del Graal sono non-cristiani e precristiani”, e dando prova di come la leggenda del Graal debba considerarsi cristiana solo in superficie. Colte in una prospettiva inter-tradizionale, le diverse espressioni che il mito ha conosciuto nel Medioevo cessano di trovarsi “in una unilaterale dipendenza da credenze cristiane” e mostrano di appartenere a un ben diverso orientamento dello spirito.
 

In altre parole, Evola si propone di restaurare il mito nel suo significato metafisico originario, rimuovendo la patina di intonaco che ad esso è stata sovrapposta – senza badare alla qualità o alla fattura artistica, senza dubbio notevole, delle contraffazioni, o falsificazioni, come all’autore è parso lecito definirle. Trattasi dunque di un lavoro di esegesi mitica il cui esito investe indirettamente anche l’ambito di nostra pertinenza, giacché il vaglio per cui passa la concezione pseudo-cristiana del Graal, trattiene, per così dire, anche elementi spuri di matrice platonica, la qual cosa non può che indurci, in primis, a riflettere ancora una volta sulla complessità che caratterizza la ricezione evoliana di Platone e, a un livello più profondo, che trascende ampiamente le finalità del presente contributo, a interrogarci sul presunto valore iniziatico della filosofia platonica, di cui Evola sembrerebbe dubitare.
 

Cristianesimo e Tradizione esprimono secondo Evola due forme spirituali eterogenee, per certi versi addirittura antitetiche, che solo a uno stadio di involuzione ormai avanzato della civiltà hanno potuto essere confuse l’uno con l’altra.
 

Nel testo da noi considerato, è il mito esiodeo delle quattro età, con il quale Evola apre la propria trattazione, a offrire i presupposti morfologici per distinguere tra due atteggiamenti dello spirito tra loro contrapposti. Da una parte la spiritualità eroica, solare o virile, avente per contrassegno l’oro, e dall’altra “quella dell’argento, che corrisponde a un tipo sacerdotale, più femminile che virile, di spiritualità, che Evola definisce anche “spiritualità lunare”, perché proprio come la luna anch’essa “non ha più in sé […] il principio della propria luce”. Quest’ultima appare perciò caratterizzata da un “atteggiamento di remissione, di abbandono, di rapimento amante o estatico”. A questa sfera dello spirito viene ricondotto il fenomeno religioso considerato nelle sue varianti teistico-devozionali quanto in quelle mistiche.
 

assai anteriore al cristianesimo e supertradizionale”, e di cui “la figurazione cristiana non ne è che una particolare adattazione in un quadro religioso”, oppure al cavallo bianco in sella al quale re Arthur tornerà a manifestarsi, cavallo bianco che – ricorda Evola – “ha una nota parte nell’Apocalissi giovannea”, o ancora all’“angelo con spada di fuoco” che interdice l’accesso al Graal, “cosa, che ci ricorda l’analogo sbarramento del “luogo primordiale” nella Bibbia”, all’“Albero della Vita” e ancor di più alla sacralità regale del re Davide. Malgrado ciò, il cristianesimo ha sempre condannato “ogni tentativo di reintegrazione di tipo “eroico” e ogni spiritualità estranea ai rapporti di devozione e di creaturale dipendenza dal divino teisticamente concepito”, stigmatizzandoli come “diabolici” o “ luciferici”. 
 

Al di là, dunque, delle analogie apparenti, risulta evidente come il centro spirituale cui si allude qui, “non solo non può essere messo in relazione col cristianesimo e con la Chiesa […], ma, più in genere, nemmeno con un centro di tipo religioso o mistico”, realizzandosi in esso l’unità indivisa, propria della tradizione primordiale, delle due potestà, la regale e la spirituale. Pertanto sede del Graal non è mai, o quasi mai, “una chiesa o un tempio” ma un “castello”, un “palazzo reale fortificato”.
 

Evola parla espressamente, a proposito della leggenda del Graal, di “mito ghibellino”, che avrebbe coagulato intorno a sé le forze della restaurazione imperiale, nel segno di una continuità con la tradizione solare ecumenica rappresentata dall’Impero romano – “le fonti del Graal” concentrandosi in un arco di tempo rimarchevolmente breve (non prima dell’ultimo quarto del XII e non oltre il primo quarto del XIII secolo) che viene di fatto a coincidere con l’“apogeo della tradizione medievale”. In verità il cristianesimo prestò alla sintesi che si veniva producendo nell’Età di mezzo, tra la tradizione nordico-iperborea e il simbolo di Roma, il suo contributo, ravvivando “il sentimento generico di una trascendenza, di un ordine sovrannaturale”. D’altra parte, però, la Chiesa non poteva che avversare la pretesa superiorità dell’Impero sul principio sacerdotale da essa rappresentato e avanzare a propria volta un primato teocratico guelfo. Ne nacque un antagonismo, all’interno del quale si consuma “il dramma del ghibellinismo medievale, della grande cavalleria e, in particolare, quello dell’Ordine dei Templari”, la cui persecuzione da parte della Chiesa Evola paragona a una vera e propria crociata contro il Graal, ma anche il dramma personale di una figura “irrisolta” come quella di Dante.

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