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LA NOZIONE ROMANA DELLA MORTE

di JULIUS EVOLA.

Estratto da“Il mondo alla rovescia”.
Edizioni Arŷa, Genova 2008. 

La comprensione del mondo antico ai nostri contemporanei, e, soprattutto ai varî “specialisti”, viene ostacolata dalla supposizione, che l’uomo antico avesse più o meno gli stessi problemi di quello moderno e ne cercasse, come noi, la soluzione sotto specie di “teorie”, di formule concettuali. Presupposto quanto mai erroneo: la mentalità pre-moderna, in quel che essa ha di specifico e di peculiare, non si lascia ridurre alla razionalità: essa ebbe altre forme di conoscenza, alle quali non il concetto o la “teoria”, bensì il simbolo e il mito servirono da mezzi espressivi. E qui bisogna allontanare un secondo pregiudizio degli interpreti moderni: quello, secondo il quale il mito non sarebbe che una diversa, fantasiosa e primitiva espressione degli stessi significati, che l’uomo moderno esprime invece in concetti. Di nuovo, si tratta di tutt’altro: la base del mito fu essenzialmente costituita da stati di coscienza: essa si riferiva ad “esperienze”, non a costruzioni logiche.
 

Angelo Brelich ha avuto il merito di riconoscere con perfetta chiarezza questo punto, ostico quanto mai per l’“ignorante competenza” degli specialisti, nella sua monografia sull’“Idea della Morte nella Romanità”, pubblicata recentemente in italiano dall’Istituto di Archeologia dell’Università di Budapest; giungendo a risultati molto interessanti. Per riuscire a cogliere appunto ciò che, nel riguardo del post-mortem, era la verità vissuta nella romanità imperiale, egli non prende per base questa o quella formulazione dei “filosofi” del tempo, ma soprattutto il vasto materiale delle inscrizioni sepolcrali e del rituale funerario romano: espressione schietta e diretta della tradizione vivente, della “forma spirituale” generale dei Romani antichi, non pregiudicata da superstrutture speculative.
 

Mediante una accurata documentazione e una corrispondente, intelligente esegesi il Brelich individua una specie di sviluppo delle antiche vedute romane circa il post-mortem: idee distinte, che si ordinano in serie. Come punto di partenza, si ha l’idea della morte come uno speciale stato: una forma incolore, atona, silente, cupa, senza piacere né dolore, di esistenza: l’Ade, il mondo dei Mani. È importante rilevare che qui si ha qualcosa di distinto dall’ipotesi sia dell’immortalità che dell’annullamento. Il Romano antico pensava la morte come un “modo d’essere”: il morto continua la sua esistenza, che ora non è più vita, ma stato di morte. Tutte le antiche immagini degli “inferi”, dell’“inferno”, ecc. non erano che raffigurazioni mitiche e simboli dello stato di morte.
 

Ma a questo punto in molte testimonianze desunte dalle inscrizioni tombali appare un nuovo elemento. Si constata, cioè, una connessione paradossale fra i simboli dello stato di morte, quale vita ridotta e spenta, e quelli di una specie di vita scatenata, più o meno associata alle forze elementari della generazione, della crescenza, della fecondità cosmica inesauribile ed indomabile: simboli tellurico-demetrici. Quasi come se la vita, dopo la morte, straripasse, acquistasse maggior intensità, diventasse sfrenata. Ci si avvicina così ad una specie di “apoteosi” – indiamento – del morto. Come si concilia questa veduta con la precedente? Sembra che si tratti o di due aspetti di uno stesso processo, ovvero di una alternativa, di una possibilità doppia offerta dal post-mortem.
 

Individuazione, forma, separazione – queste sono le caratteristiche della esistenza comune. La morte le annulla: cancella la forma, l’individualità, il limite – e questo aspetto si riflette nella concezione “larvale” dello stato di morte. Ma che cosa riceve in cambio l’uomo? Vita. Una vita che sembra superiore, illimitata, esuberatamente ricca. “Ciò che si esprime nell’uso dei simboli di vita e di fecondità sui sepolcri – dice il Brelich – è quel di più che si trova nella vita amorfa e senza individualità in confronto all’esistenza umana”. Ecco il secondo aspetto.
 

Ma anche l’estasi dionisiaca è uno svestimento dell’individualità. L’antico uomo dionisiaco bramava l’autodistruzione già da vivo: un desiderio di morte che era desiderio di vita piena e totale. La via che conduce alla morte per lui era quella d’intensificazione della vita – e qui sta il senso delle “orge sacre” antiche: in tutte le forme frenetiche di una vita condotta al limite estremo si concepiva anche una via verso qualcosa di “più che vita”, cioè verso una effettiva immortalità, poiché già in quelle forme si aveva una specie di distruzione attiva dell’individualità. Ma i festini funerarî mostravano, originariamente, più di un tratto comune con le “orge” dionisiache.
 

Tuttavia il fatto che il dionisismo avesse un carattere iniziatico e come tale non potesse non considerare l’immortalamento come un privilegio, e non come qualcosa di naturale e di “generale”, ci fa pensare che anche le vedute romane circa lo stato di morte non fossero così semplici, ma considerassero, in fondo, la possibilità effettiva di un doppio destino. Lo stesso Brelich finisce col riconoscerlo: “Sembra quasi che l’uomo antico si sentisse sospeso fra due possibilità: l’una, quella di cader giù, nella morte, fra le larve, le ombre, i Mani; l’altra, di elevarsi verso la totalità della vita la quale, a sua volta, come abbiamo visto, è di nuovo stato di morte (rispetto alla vita finita). Chi vuol salvarsi dalla prima via, si getta nelle possibilità dell’intensificazione e dell’elevamento della vita”.
 

Da altre testimonianze sorgono, del resto, accenni a stati anche più alti e positivi. Già i termini di securitas e quies riferiti frequentissimamente allo stato di morte indicano il lato positivo della “non-esistenza” – sono attributi della stessa immutabilità e eternità. Ma questi stessi attributi appaiono anche come titoli del Cesare romano, considerato come un essere divino: securitas Augusti, quies Augusti. Secondo la tradizione romana la forza divina incarnatasi nel Cesare, però, si libera solo alla morte, e solo allora essa lo trasforma completamente in un nume: l’“apoteosi” imperiale, l’indiamento del Cesare supponeva, originariamente, la sua morte, lo vestimento della individualità, necessario per far valere la forma superiore al di là della persona. Gli attributi poco su citati si legano allora all’idea dell’eterno: perpetua securitas, aeterna quies.
 

Idee analoghe si affacciano anche da un certo ordine di inscrizioni tombali: il morto passa ad una sfera divina, trasformandosi in un dato nume, del quale l’esistenza o “vita” umana appare allora necessariamente come una specie di manifestazione ridotta. Si ripete cioè il processo dell’apoteosi imperiale.
 

Il risultato di tutta questa indagine è interessante. All’antico Romano sarebbe dunque stata sconosciuta l’idea di una sopravvivenza individuale – cioè di una specie di continuazione del mondo umano e finito di essere. Il Romano “pose lo stato di morte o al disotto della vita, o al disopra della vita, ma lo ha mai identificato con essa”. Qualcosa si distrugge, l’“uomo” si distrugge – e su ciò nemmeno il popolino, nell’antica Roma, aveva dei dubbi. Dopo di che vi è o lo scendere nelle forme spente di una sopravvivenza larvale, ovvero l’ascendere al modo di essere di un dio, avendo superata la crisi della distruzione dionisiaca.
 

Questa era la visione del post-mortem vissuta da Roma, fuor da ogni “teoria”, fin nel periodo del medio impero. Essa concorda in tutto e per tutto con le concezioni proprie alle maggiori civiltà indogermaniche: Ade e Olimpo (Grecia), Pitri-yâna e Dêva- yâna (India), Niflheim e Walhalla (popoli nordici), ecc. – non sono che diversi modi per esprimere la stessa veduta, di natura palesemente aristocratica ed eroica. Solo le immagini confuse sorte presso al disfacimento umanistico e plebeo del mondo tradizionale ariano condussero alla fede in una immortalità generalizzata, cioè democraticizzata, nella quale ad ogni anima viene promessa una sopravvivenza personale e le immagini antiche dell’oltretomba, da espressioni simboliche per una scienza dei vari stati di coscienza, vengono trasformate in strumenti moralistici, usati per frenare l’animale umano, spaventandolo o lusingandolo con l’idea delle sanzioni o delle ricompense ultraterrene.

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