DELLA RELIGIONE DE’ ROMANI
di TITO LIVIO PATAVINO.
A cura di Renato Del Ponte.
Estratto da “Hic manebimus optime!”.
Edizioni Arŷa, Genova 2015.
Tito Livio è stato ispiratore di forti sentimenti anche nei suoi più tardi eredi d’Italia. Dunque, per finire, non ci sembra inopportuno riprodurre alcuni brani che un grande Fiorentino del nostro Rinascimento, un autentico classico che non dovrebbe mancare nella biblioteca d’ogni vero Italiano, Nicolò Macchiavelli (1469–1527), ha dedicato alla religione romana. I passi sono tratti dal capitolo XI del libro primo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Della religione de’ Romani
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere come figliuola il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciò che quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obbedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la costituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini Romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme e di molti de’ Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio che quella degli uomini: come si vede manifestamente per [alcuni] esempli (…). Perché dopo la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme e, sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la Italia e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria. (…)
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a animire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obbligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione, facilmente si possono introdurre l’armi; e e dove sono l’armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il Senato e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell’autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere dimestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch’egli evesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. (…)
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese.