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IL CARATTERE SACRO DELLA REGALITÀ

di JULIUS EVOLA.

Estratto da “Le sacre radici del potere”.
Edizioni Arŷa, Genova 2010. 

Ogni forma tradizionale di civiltà fu caratterizzata dalla presenza di esseri, i quali, per via della loro “divinità”, cioè di una superiorità innata o acquisita rispetto alle condizioni umane e naturali, apparivano capaci di rappresentare la presenza viva ed efficace del principio metafisico in seno all’ordine temporale. Tale, secondo il senso interno della sua etimologia e il valore originario della sua funzione, era il pontifex, il ”facitore di ponti” o “vie” fra naturale e sovrannaturale. Peraltro, il pontifex tradizionalmente si identificava al rex secondo l’unico concetto di una divinità regale e di una regalità sacerdotale. I “re divini” incarnavano dunque stabilmente quella vita, che è “di là dalla vita”. Per la loro presenza, attraverso la loro mediazione “pontificale”, per la forza dei riti affidati al loro potere e delle istituzioni di cui essi erano gli artefici o i sostegni, influenze spirituali si irradiavano nel mondo degli uomini innestandosi ai loro pensieri, alle loro intenzioni, ai loro atti; facendo da diga alle forze oscure della natura inferiore; ordinando la vita complessiva così da renderla atta a servire da base virtuale per realizzazioni di luce; preparando dunque condizioni generali di “prosperità”, di “salute” e di “fortuna”. Il fondamento primo dell’autorità e del diritto dei re e dei capi, ciò per cui essi venivano venerati, temuti e glorificati, nei quadri del mondo tradizionale era essenzialmente questa loro qualità sacra e sovra-umana, considerata, non come un vuoto modo di dire, ma come una realtà. Per quanto l’invisibile era sentito come un principio anteriore e superiore al visibile e al temporale, di tanto a tali nature veniva immediatamente riconosciuto il primato su tutti e il diritto naturale e assoluto di sovrano. Manca del tutto alle civiltà tradizionali, è solo cosa di un periodo successivo e già decadente, l’idea laica, profana, semplicemente “politica” della regalità, epperò anche quella di preminenze fondate, sia sulla violenza e l’ambizione, sia su qualità naturali e mondane, quali l’intelligenza, la forza, l’abilità, il coraggio, la saggezza, la sollecitudine per il bene materiale collettivo, e così via. Ancor più estranea alla tradizione è l’idea che i poteri vengano al Re da coloro che egli governa; che le sue leggi e la sua autorità siano espressioni della coscienza popolare, soggette alla sanzione di essa. Alla radice di ogni potere temporale stava invece l’autorità spirituale quasi di “natura divina sotto specie umana” βασιλεις ἱεροῖ: il re-più-che-uomo – essere sacro, cosmico – possiede una forza trascendente che lo distanzia da qualsiasi mortale facendolo atto a largire ai suoi sudditi doni, considerati al disopra della portata umana, e a rendere efficaci le azioni rituali tradizionali di cui, come abbiamo detto, gli spetta la prerogativa e nelle quali si riconoscevano le membra del vero “ regere” e i sostegni sovrannaturali della vita complessiva entro la tradizione. Per questo la regalità dominava ed era riconosciuta naturalmente. Non aveva bisogno di forza materiale. Si imponeva per prima, e irresistibilmente, attraverso lo spirito. “Splendida è la dignità di un dio in terra – è detto in un testo indù – ma ardua ad ottenere per gli insufficienti: degno di divenire re è solo colui che ha l’animo elevato a tanto”.
 

Nella tradizione, alla divinità regale spettava essenzialmente il simbolo solare. Si riconosceva al re la stessa “gloria” propria al sole e alla luce – simboli della natura superiore – in trionfo ogni mattino sulle tenebre. “Sorge quale re sul trono di Oro [il Sole] dei viventi come suo padre Râ tutti i giorni” — “Ho stabilito che tu ti levi quale re del Sud e del Nord nella sede di Oro, come il sole, eternamente” — sono appunto espressioni che si riferiscono all’antica regalità egizia. Peraltro, ad esse fanno esatto riscontro quelle iraniche, ove il re è detto “della stessa stirpe degli dei”, “ha lo stesso trono di Mithra, sorge col Sole” ed è chiamato particeps siderum, “Signore di pace, salute degli uomini, uomo eterno, vincitore che sorge col Sole”.
 

Questa “gloria” o “vittoria” solare che dunque definiva la natura regale e il diritto dall’alto di essa, non si riduceva peraltro al semplice simbolo, ma si identificava con una forza reale ed operante, di cui il re, in quanto tale, era considerato il portatore. Per una tale idea, una delle espressioni tradizionali più caratteristiche, è quella mazdea: qui l’hvarenô (espressioni più recenti: hvorra o farr) – la “gloria” che il re possiede – è un fuoco sovrannaturale proprio alle entità celesti, ma soprattutto al sole, dal quale gli viene conferita l’immortalità e che lo testimonia con la “vittoria”: una “vittoria” da intendere – come forse vedremo in altra occasione – così che i due sensi, mistico l’uno, militare (materiale) l’altro, non si escludano, anzi si implichino a vicenda. Peraltro, nella tradizione vedica noi troviamo una nozione equivalente: abbiamo l’agni-vaisvâreavas, concepito come un fuoco spirituale che guida i re conquistatori alla vittoria. Nell’antico Egitto, il re era detto non pure Oro, ma “Oro combattente” –  Hor âhâ – a designare questo carattere di vittoria o gloria del principio solare incarnato dal re: il quale, in Egitto, oltre ad avere una “discendenza divina”, era “costituito” come tale e poi periodicamente confermato attraverso riti i quali riproducevano appunto la vittoria del dio solare Oro sopra Tifone-Set, demone della regione inferiore. A tali riti peraltro si attribuiva il potere di attrarre una “forza” e una “vita” che “abbracciavano” sovrannaturalmente le potenze del re. Ma, l’ideogramma uas, “forza”, è lo scettro portato dagli dèi e dai re, ideogramma che nei testi più antichi si mutua con un altro scettro di forma spezzata, ove si riconosce lo zig-zag del lampo. La “forza” regale appare così come una manifestazione della forza celeste folgorante; e l’unione dei segni “vita-forza”, ânshûs, forma una parola la quale designa anche il “latte di fiamma” di cui si alimentano gli immortali, a sua volta non privo di relazione con l’uraeus, la fiamma divina, ora vivificante, ora temibilmente distruttrice, il cui simbolo cinge la testa del re egizio. I varii elementi convergono dunque nell’unica idea di un potere o fluido “non terrestre” – sa – che consacra e testimonia la natura solare-trionfale del re e che dall’un re si “lancia” all’altro – sotpu – determinando l’ininterrotta e “aurea” catena della “stirpe divina” designata al “regere”.
 

Secondo la tradizione estremo-orientale il re, “figlio del cielo” — t’ien-tze – cioè non nato secondo la nascita mortale, ha il “mandato celeste”, t’ien-ming che implica parimenti l’idea di una forza reale estranaturale. Il modo di questa forza “dal cielo” è, secondo l’espressione di Lao-tze, agire-senza-agire (wei-wu-wei), ossia azione immateriale per presenza. Essa è invisibile come il vento, purtuttavia la sua azione ha l’ineluttabilità delle energie della natura: “le forze degli uomini comuni – dice Meng-tze – vi si piegano, come i fili d’erba si piegano sotto il vento”. Stabilito in tale forza o “virtù”, il sovrano nell’antica Cina costituiva effettivamente il centro di ogni altra cosa o energia. Si riteneva che dal suo comportamento dipendessero occultamente, non soltanto i fasti o le sciagure del suo regno e le qualità morali del suo popolo (è la “virtù” — te’ — del sovrano, non tanto il suo esempio, a far buona o cattiva la condotta del suo popolo), ma altresì l’andamento regolare e propizio degli stessi fenomeni naturali. La sua funzione di centro implicava la sua stabilità in quell’interiore, “trionfale” modo d’essere di cui si è detto, e a cui qui si può far corrispondere il senso della nota espressione: “invariabilità nel mezzo”. Ma quando ciò fosse stato, nulla avrebbe avuto, contro la sua “virtù”, il potere di alterare il corso tradizionalmente ordinato delle cose umane e della stessa natura. Di ogni avvenimento anormale, il sovrano doveva dunque cercare in sé la causa prima e l’occulta responsabilità.
 

Più in generale, l’idea di operazioni sacre attraverso le quali l’uomo sostiene con le sue potenze profonde l’ordine naturale e rinnova – per così dire – la vita della natura, appartiene ad una tradizione primordiale con frequentissime interferenze appunto con l’idea regale. In ogni caso, che il re abbia per prima ed essenziale funzione il compiere quelle azioni rituali e sacrificali, le quali costituivano il centro di gravità della vita nel mondo tradizionale, è una idea che permane in tutte le forme regolari della tradizione, fino alle città greche e a Roma producendo la già detta inseparabilità della dignità regale da quella sacerdotale o pontificale. Il re, munito di forza non-terrestre, essere divino, appariva in via naturale come colui che eminentemente può trarre in atto il potere dei riti e aprir le vie al mondo superiore. Per questo, in quelle forme di tradizione ove appare una casta sacerdotale distinta, il re, quando corrisponde alla sua originaria dignità e funzione, appartiene ad essa e, a dir vero, come capo di essa, pontifex maximus. Come controparte, se presso a certi popoli troviamo l’uso di deporre od anche di sopprimere il capo all’accadere di una disdetta – poiché questa valeva loro come un segno della decadenza della forza mistica di “fortuna” per cui si aveva diritto ad esser capi — noi qui abbiamo l’eco di qualcosa che, per quanto in forme di degenerescenza materialistica, ci riporta allo stesso ordine di idee. E nei popoli nordici, sino al tempo dei Goti, restando pur fermo il principio della divinità regale (il re era detto Ases, nome proprio ad una certa categoria di divinità scandinave), un evento infausto, come p. es. una carestia o una pestilenza o una distruzione del raccolto, valeva, non tanto come una assenza del mistico potere di “fortuna” legato al re, quanto invece come effetto di qualcosa che egli doveva aver commesso e che ne aveva paralizzata l’efficacia oggettiva.

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