LA CONSACRAZIONE DEI RE E LO SPIRITO SANTO
di JULIUS EVOLA.
Estratto da “Le sacre radici del potere”.
Edizioni Arŷa, Genova 2010.
Un articolo di “Argos” dal titolo Du Sacre des Rois et des Dons de l’Esprit Saint uscito sul numero di marzo de “Le Voil d’Isis”, potrebbe esser segnalato per vari spunti interessanti, se da noi, in cui pur si ostenta un ottuso e ipocrito rispetto per il cattolicesimo, vi fosse ancora una qualche sensibilità per un certo ordine di cose trascendenti.
La cerimonia tradizionale della consacrazione dei Re, quale lo stesso cattolicesimo l’ha conservata, nel suo principio, ha il valore di un’azione reale, oggettiva, efficace, per quanto spirituale, e non si riduce per nulla a una mera “cerimonia” più o meno teatrale, come è divenuta col decadere delle caste sacerdotali, e quale gli “spiriti positivi” l’intendono.
Per lumeggiare la cosa occorrerebbe inoltrarci in un ordine di considerazioni che, esposte succintamente, si presterebbero troppo a esser fraintese. Possiamo indicar però la base, che è non la “fede”, ma la conoscenza reale dell’esistenza, dietro e fra la trama degli avvenimenti fisici, di influenze che potremmo chiamare “spirituali”, influenze imponderabili e inafferrabili, il cui regno, nell’uomo, comincia là dove finisce quello della coscienza distinta, e il cui ruolo, nello svolgersi delle cose, è infinitamente più grande di quel che, per loro fortuna, gli spiriti positivi possono mai sospettare.
L’espressione “spirito santo” che oggi non vale più che come un’astrazione teologica del cattolicesimo o una credenza devota, è da riportarsi a un ordine superiore di siffatte “influenze spirituali”; il quale dunque si lascia ridurre all’idea creata da una singola religione, quale è il cattolicesimo, così poco, quanto lo può la realtà oggettiva di una forza o di una legge di natura. È inutile qui riportare i diversi nomi con cui in diverse razze o tradizioni è stata designata la stessa cosa.
Ora, la funzione tradizionale del rito è sempre stata quella di esercitare su quelle influenze un’azione determinata, di attrarle o di respingerle, di produrre in loro un determinato orientamento, di investirne determinati ambienti, cose o persone. Sia nel cattolicesimo, sia in altre religioni, dato sempre che si tratti di istituzioni “tradizionali” il rito appare come una vera e propria scienza operante sullo “spirito santo” e anche su altri ordini di influenze: secondo rapporti oggettivi ed efficaci allo stesso titolo di quelli che la tecnica moderna ha con le forze naturali.
Tradizionalmente, l’efficacia del rito, di massima, ha però una condizione; la dignità adeguata in coloro che lo compiono. Anche qui, non è possibile precisare il concetto: v’è solo da dire che questa “dignità” non viene da una qualità semplicemente morale, umana, e nemmeno dall’esteriorismo di un grado. Questo, deve essere sottolineato, perché siamo convinti che da tempo oramai nelle gerarchie della religione occidentale manca chi sia qualificato nel modo adatto a che il rito sia qualcosa più che non ciò su cui il giudizio profano, di sopravvivenza e di superstizione, può avere facile presa.
Ciò premesso, l’importanza dei riti tradizionali di consacrazione dei Re, sta nel fatto che essi ci dicono che nell’antica idea dei capi era compreso molto più che non un potere semplicemente materiale, temporale, politico. Il rito riveste il Re di “spirito santo”: solo allora egli è veramente Re. Allora egli “ha le chiavi del regno dei cieli” e il potere di cui è portatore non è più un potere soltanto naturale. Nel rituale cattolico – rileva “Argos” – il Re prima della cerimonia veste un “abito militare” e solo successivamente prende un “abito regale” e va a porsi in un “luogo elevato” che gli è stato preparato nella Chiesa. Ciò conferma appunto l’idea che è l’aggiungersi di un elemento “sacro” mediante il rito ciò che propriamente conferisce la regalità al Re. Il Re è qualcosa più che non un uomo. Egli è centro di un gruppo di “influenze” d’ordine superiore, le quali alla sua forza aggiungono un’altra forza – invisibile – e producono un certo orientamento propizio nell’ordine di ciò che sta fra le quinte degli avvenimenti visibili.
Il problema del rapporto che intercorre fra l’individualità del Re e quelle forze di spirito, è degno di considerazione. L’autore dell’articolo qui, malauguratamente, non vede oltre la soluzione di questo problema, propria alla visione religiosa; per cui egli ritiene la sacralità del Re come un valore inferiore e subordinato rispetto a quello dell’autorità sacerdotale. Questo stesso è il punto di vista cattolico, che però non è per niente il punto di vista di altre tradizioni, più compenetrate dal senso guerriero e virile dello spirito. Anche su questo non possiamo dilungarci; ma si può rilevare che perfino in una tradizione in cui le caste sacerdotali ebbero tanto prestigio, quale quella upanishàdica, si trova detto, in un testo, che nel momento della consacrazione il sacerdote venera umilmente i Re, perché essi vanno a corrispondere analogicamente ai valori delle più alte gerarchie divine. Il senso di ciò, è che le caste sacerdotali, se possono considerarsi come le depositarie dello spirito consacrante e delle influenze sottili ed efficaci che vi si legano, questo spirito, tuttavia, quando investe un essere qualificato secondo virtù di forza e di pura virilità – ecco il senso simbolico delle vesti di guerriero, rivestite prima di quelle regali – viene a una esaltazione e a una individuazione, tanto da costituire una forma superiore a quella, per così dire, diffusa, impersonale e priva di centro affermativo, che è da riferirsi alla spiritualità sacerdotale. Può dirsi che il Re e il sacerdote corrispondono rispettivamente al polo maschile e al polo femminile, nei riguardi del rapporto con lo “spirito santo” e con le influenze spirituali. E questo potrebbe servire di punto di partenza per molte altre considerazioni particolarmente istruttive.
Si può anche ricordare, che nell’antichità spessissimo si considerò nel Re il vero artefice della vittoria o della disfatta del suo popolo; perfino qualcosa che già apparteneva all’ordine delle cose di natura, secondo la tradizione cinese, gravitava sulla persona del Re. Inoltre, sino a tempi abbastanza recenti, i soldati e i capi non combattevano per la “patria”, la “nazione” e il restante bagaglio della moderna ideologia plebea, ma per il loro Re. E tradizioni speciali di rito, fin nella romanità pagana, lasciano intravedere l’idea, che prima di ogni vittoria militare, bisognava propiziare una specie di vittoria mistica, nella quale, appunto, la persona sacra dei capi aveva una parte essenziale.