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MISTICA DELLA MONARCHIA

di JULIUS EVOLA.

Estratto da “Le sacre radici del potere”.
A cura di Renato del Ponte.
Edizioni Arŷa, Genova 2010. 

Esiste una mistica della monarchia, indisgiungibile dalla sua intrinseca dignità, elemento essenziale oggi purtroppo poco considerato da coloro che difendono ancora tale idea, la quale è quasi l’unica cosa sopravvissuta del retaggio dei simboli delle grandi tradizioni del passato. Il problema della “dignità” dell’idea monarchica in sé stessa dovrebbe, in realtà, essere posto prima di ogni altro; il compito fondamentale è di mettere in luce tale dignità sul piano che le è proprio. Pertanto, si dovrebbe capire quanto pericoloso sia entrare in polemiche nelle quali si considera la “quistione istituzionale” in semplici, vuoti e disanimati termini giuridici, la Monarchia venendo implicitamente posta sullo stesso piano di altri regimi politici: per cui, per la sua difesa dovrebbero essere addotti argomenti di convenienza politica nel senso più volgare e “moderno” – cioè profano, “sociale”, utilitaristico e materialistico – della parola. Non che questi argomenti non abbiano accessoriamente il loro peso – ad essi nell’attività, che questa rivista intende svolgere, si darà indubbiamente il dovuto risalto. Ma tali aspetti concreti non sono che consequenziali, non toccano la dignità del simbolo monarchico in sé stesso, dignità in ordine alla quale non dovrebbe essere ammessa alcuna discussione.
 

Il fondamento essenziale di ogni vera Monarchia è, infatti e appunto, una sua mistica, una sua sacrità reale e tradizionale che da nessun’altra forma di reggimento politico saprebbe essere rivestita. Il fatto che, per circostanze contingenti legate alle ideologie che hanno propiziato i moti del Risorgimento, in Italia la Monarchia non ha potuto affermarsi nella pienezza della sua potenza, non deve far dimenticare che il suo prestigio e il suo diritto sempre e dovunque si trassero da una sfera superindividuale e spirituale: investitura, “diritto divino”, filiazioni e genealogie mistiche, e così via, non sono che modi figurati per esprimere il fatto essenziale sempre riconosciuto, e cioè che un vero ordine politico, una unità veramente organica e vivente si rendono possibili solo dove esista un centro, un principio sopraelevato rispetto a qualsiasi interesse particolare, avente in proprio l’autorità e l’intangibilità intrinseche derivanti dal crisma insito in una forza dall’alto. Se in tempi passati, ma già appartenenti alla cristianità, si poté perciò parlare di una religio regalis (significativamente associata alla figura biblica di Melchisedek) e di un sacramentum fidelitatis – formula che conferiva, per analogia, la dignità di un sacramento all’impegno di fedeltà del seguace e del suddito rispetto al Sovrano – questa mistica si conservò anche più tardi, come anima più o meno avvertibile di una etica speciale, dell’etica, appunto, della fedeltà, della lealtà, dell’onore. E questi sono valori che non possono avere tutto il loro dispiegamento quando manchi un punto superiore di riferimento, un simbolo personalizzato, reso vivente e evidente dall’alta statura di un Principe, di un capo. In tempi normali, che l’uomo non sia sempre all’altezza del principio e di una specie di “ascesi del potere” (quella stessa che Platone considerò indispensabile in chi accetta una funzione di capo), ciò non importa: la sua funzione resta sempre imprescrivibile e intangibile, perché non è all’uomo, bensì al Re che si obbedisce, e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell’orgoglio nel servire liberamente, quella prontezza all’azione e al sacrificio attivo (ove esso sia necessario), che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo, e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di un organismo politico.
 

Che tutto ciò non possa realizzarsi nella stessa misura in un’altra forma di reggimento politico, è chiaro. Un “presidente” può essere ossequiato, ma in lui non potrà mai essere riconosciuto altro che un “funzionario”, un “borghese” come un altro, che solo estrinsecamente è investito da una revocabile e assai condizionata autorità. E se conserva un senso vivo, che ogni uomo ben nato, ogni uomo di buona razza, ancora percepisce, il “combattere per il proprio Re, il “morire per l’onore e il diritto del proprio Re”, tutto ciò non può non presentare una coloratura parodistica e quasi grottesca quando è al “proprio presidente” che, invece, ci si dovesse riferire. In clima di repubblica predomina fatalmente il nietzschiano “umano, troppo umano”: nessuna realtà superiore adombra l’uomo. E in regime di “contratto sociale” chiedere all’individuo un comportamento che comunque porti di là dal suo mero vantaggio personale, sarebbe come chiedere all’azionista di una società per azioni di sacrificarsi per la società stessa, che non incorpora nessun valore superiore, nessun diritto superiore.
 

È vero che nei tempi più recenti alla mistica aristocratica della Monarchia si è cercato di sostituirne un’altra, degradata, facendo intervenire idee astratte e retoriche sostanzializzate, nate più o meno nel clima della rivoluzione giacobina. In primo piano, più che non il Sovrano, si vorrebbe mettere la “patria”, la “nazione”, il “popolo”. Il ricorso a tali entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del “popolo”, ma in alto, ove ciò che è diffuso nella moltiplicità si raccoglie, si personalizza, viene ad atto: non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: “ dove è l’imperatore, là è Roma”, così in un sistema politico virile, personalizzato, ben articolato, anticollettivistico può ripetersi, che è nel Monarca veramente all’altezza del simbolo sacro da lui incarnato che vivono davvero la Patria e la Nazione: nella Monarchia l’una e l’altra ricevono un superiore crisma.
 

E tutto questo quasi fino ad ieri lo sentì lo stesso popolo, nel fluido indefinibile e misterioso legato alla persona dei sovrani, ben diverso da quanto può riferirsi a “stati di folla” di semplice esaltazione patriottica momentanea, o quali l’arte demonica di un tribuno del popolo, o capopopolo, può suscitarli. Con la Monarchia, e col sistema gerarchico di cui essa dovrebbe essere la naturale conseguenza, al nazionalismo moderno, fenomeno di sospetta origine, i cui effetti devastatori per l’Europa sono ad ognuno noti, si sostituisce il senso sano, normale e tradizionale della nazione (della “nazionalità”) , e liberata la sfera politica da nebulosi miti possono aver giusto risalto quei superiori valori della personalità etica e spirituale, che trascendono necessariamente il fatto naturalistico della mera appartenenza ad un particolare ceppo etnico e ad una data comunità storica, e che sono la base per una sana differenziazione.
 

Questi contenuti dell’idea monarchica sono essenziali, e nel riconoscerli dovrebbe apparire anche chiaro quale è la principale premessa per una restaurazione monarchica: è una atmosfera, un clima spirituale, clima che è quello proprio ad ogni vera civiltà tradizionale e che si contrappone al materialismo politico moderno. Vi è un equivoco fondamentale circa il piano su cui, con netto distacco dalla prassi degli avversari, si dovrebbe impostare l’azione. Affinché la Monarchia sia riconosciuta secondo la dignità e la funzione di cui abbiamo or ora detto, occorre che sorga nuovamente una sensibilità per tutto ciò che è rango, gerarchia, dignità, onore e fedeltà, perché tutti questi sono valori che nella Monarchia hanno il loro naturale centro di gravità, mentre, a sua volta, la Monarchia risulterà come paralizzata, ridotta ad una sopravvivenza formale quando questi valori non siano vivi ed operanti, quando essi, almeno in una élite, in una vera classe dirigente, non abbiano di fatto la preminenza di fronte a tutti gli altri di un piano più condizionato, utilitaristico e realistico in senso deteriore. Non sono le stesse corde che il difensore dell’idea monarchica e quello di un qualsiasi altro sistema debbono fare risuonare nel singolo: così vi è qualcosa di ridicolo, di deleterio appunto per quei fattori più sottili, per quella “mistica” di cui si è detto, nell’affidare i destini dell’idea monarchica ad una prassi partitistica più o meno ricopiante i metodi degli avversari.
 

L’essenziale per la causa monarchica è invece la possibilità, o meno, che quello speciale tipo di sensibilità sia presente e sufficientemente diffuso. Propiziarlo e rafforzarlo, fino a creare un clima generale, è quel che veramente importa. In tali termini, l’affermarsi del simbolo monarchico e il prestigio di esso avranno anche il valore di un indice segnaletico, testimonieranno della presenza, in una data società, di un tipo umano differenziato, perché i valori, di cui si è detto, sfuggiranno come acqua fra le dita a chi pensi solo in termini di materia e di vantaggio personale e non abbia il senso di ciò che non si lascia né vendere, né comprare, né usurpare nelle dignità e nelle partecipazioni alla vita politica.
 

Tutte queste sono cose che, purtroppo, oggi assai pochi capiscono ancora; anche le persone che dimostrano le migliori intenzioni oggi sono succube delle suggestioni, dei metodi e dell’abito mentale di un mondo politico degradato. Eppure è su di esse che si dovrebbe insistere, perché questa è la pietra di prova, questo è il vero punto di partenza. Chi vuole restituire alla Monarchia il suo prestigio, e prepararne quindi la restaurazione, deve fare appello a forme diverse di sensibilità, di interesse e di vocazione, a forme sostanzialmente diverse da quelle su cui il demagogo, il politicante democratico e l’agitatore marxista fanno leva e su cui contano per il loro successo, sinonimo di sovversione: altrimenti oseremmo dire che la battaglia già in partenza è pregiudicata nel suo esito da un equivoco fondamentale. È, in una parola, ad un tipo di uomo esistenzialmente opposto ad un altro tipo di uomo che il monarchico deve parlare; e una nazione non spezzata questo tipo di uomo deve essere capace di produrlo.
 

Come controparte, occorre naturalmente che l’idea monarchica venga definita rigorosamente anche nei termini di una dottrina generale dello Stato, la struttura positiva dello Stato facendo in un certo mondo da corpo, la mistica della Monarchia facendo invece da fluido animatore e, per usare l’espressione aristotelica, da “entelechia“ a questo corpo. Si è detto che in via normale, quando il mare della storia è relativamente calmo, il simbolo non può essere pregiudicato dall’aspetto soltanto umano della persona che, in qualche caso, lo incarna. In tempi, come gli attuali, occorrerebbe però che una tale eventuale disequazione fosse ridotta ad un minimo, proprio con riguardo a quel fattore spirituale, immateriale, di cui abbiamo parlato: nella misura in cui un Re rivendichi ancora il titolo tradizionale di “Maestà”, occorre che questo titolo non si riduca a un semplice articolo di inventario del cerimoniale. Bisogna che la dignità, diciam così, non profana di un Sovrano sia assicurata di contro a certe errate concessioni alla “modernità”. E per le ore decisive, per il momento dell’azione, non sia dimenticato il detto che ci viene dall’antica sapienza: Rex est qui nihil metuit — “è Re chi nulla teme”.

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