“PER NOI IL DADAISMO ERA QUALCOSA DI MOLTO SERIO”. EVOLA E L’ARTE MODERNISSIMA
di IGOR TAVILLA.
Estratto da “Arthos”.
N° 30 del 2022.
Edizioni Arŷa, Genova.
Julius Evola si afferma sulla scena culturale italiana innanzitutto come pittore e poeta d’avanguardia. La sua produzione pittorica si articola in due fasi distinte: la prima, tra il 1915 e il 1918, prende il nome di “idealismo sensoriale”, a indicare una forma di astrattismo che conserva, in comune con il dinamismo futurista, una certa componente sensoriale; la seconda, tra il 1918 e il 1921, detta di “astrattismo mistico”, fa dell’astrazione pura il mezzo per accedere a una dimensione trascendente. Sul versante poetico, si contano, tra il 1916 e il 1922, una trentina di componimenti apparsi su alcune riviste francesi dell’epoca, che, uniti a quelli pubblicati in appendice ad Arte astratta (1920), daranno corpo alla raccolta Raàga Blanda, rimasta inedita fino al 1969, e ai quali deve aggiungersi il poema a quattro voci La parole obscure du paysage intérieur, uscito sempre nel 1920, una sorta di dramma interiore basato sulla tecnica dell’“alchimia delle parole” (per cui quest’ultime vengono associate in base al loro senso evocativo, prescindendo dal loro significato reale) la cui chiave interpretativa va ricercata nel detto gnostico: “Si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la luce”. Non trascurabile è poi l’opera di promozione e divulgazione, condotta mediante la redazione di manifesti, articoli e conferenze, che lo ha portato ad imporsi come il principale esponente del dadaismo in Italia.
L’impegno sul fronte artistico, sia come facitore sia come teorico d’arte, si inserisce organicamente in un iter spirituale ben più ampio e profondo, di cui Evola ha sempre tenuto a sottolineare la coerenza. È significativo il fatto che egli non abbia mai disconosciuto la propria adesione all’avanguardia artistica ed è altrettanto innegabile l’omogeneità di vedute tra l’Evola artista e l’Evola filosofo, tanto che le due fasi trapassano l’una nell’altra senza soluzione di continuità — nella riflessione meta-artistica compaiono frequenti e circostanziati riferimenti alla filosofia, e nella produzione filosofica (Saggi sull’idealismo magico, Fenomenologia dell’individuo assoluto) l’arte è del pari oggetto di considerazione -, essendo, in fondo, le due vocazioni animate da una comune esigenza che precede e incalza in ugual misura entrambe. Come l’arte è trampolino di salto più che punto di arrivo, così anche la filosofia rappresenta una tappa da consumare, non già una dottrina compiuta, in cui si acquieta ogni sete di trascendenza. Arte e filosofia hanno perciò ragione d’essere in rapporto a un dominio superiore, quello metafisico, che al tempo stesso suscita e riassorbe in sé tanto l’una quanto l’altra. “Il fatto — spiega Evola — è che io non sono partito da arte e letteratura, ma conoscevo già testi di metafisica e di mistica”. Pertanto, l’arte non trova alcuna giustificazione nel mero fare espressivo, che anzi Evola reputa un momento del tutto superfluo e accidentale, semmai questa va cercata nella capacità dell’arte stessa di provocare, sotto determinate condizioni — quelle procurate dall’arte modernissima — una catarsi spirituale il cui fine è la realizzazione della pura libertà dell’Io.
Nelle pagine che seguono si cercherà di rivisitare brevemente questa specifica dimensione dell’opera evoliana, soffermandosi in particolare sul valore speculativo e realizzativo di cui l’arte astratta è parsa a Evola, almeno per un certo periodo, provvista, stando a quanto si evince dai suoi scritti teorici sull’arte e come è stato ben compreso da chi ha definito l’esperienza dadaista “un processo di dissoluzione del reale e di affermazione dell’Io”.
“Nel primo dopoguerra fui […] attratto dal movimento dadaista, creato a Zurigo dal romeno Tristam Tzara: ciò soprattutto per via del suo radicalismo. Il dadaismo non voleva essere semplicemente una nuova tendenza dell’arte d’avanguardia. Difendeva piuttosto una visione generale della vita in cui l’impulso verso una liberazione assoluta con lo sconvolgimento di tutte le categorie logiche, etiche ed estetiche si manifestava in forme paradossali e sconcertanti”. Il testo citato da Il cammino del cinabro ben evidenzia come Evola non accondiscendesse a un moda, ma il suo interesse per il dadaismo fosse autentico e presupponesse la condivisione di un programma di sovversione radicale dei parametri logici, estetici e morali vigenti al fine di ottenere la liberazione assoluta dell’Io.
È possibile datare l’adesione di Evola al dadaismo al 1 gennaio 1920, con l’uscita su “Noi. Rivista internazionale d’arte d’avanguardia” (Roma, a. III, n. 1), di L’arte come libertà e come egoismo. La redazione di manifesti artistici è fenomeno tipico delle avanguardie storiche del primo Novecento, stante l’esigenza di offrire una legittimazione teorica della prassi artistica e di renderne, al tempo stesso, intellegibili i contenuti alla luce dei nuovi parametri estetici che si intendevano rivendicare in polemica con il canone formale proprio dell’accademia.
Il testo è particolarmente esemplare di quanto poc’anzi accennavamo circa la compenetrazione profonda tra filosofia ed arte. L’articolo presenta una riflessione intorno all’Io, inteso come “quanto vi è di fondamentalmente puro” e “originale nell’individuo” e al processo di decantazione attraverso cui la coscienza empirica è chiamata a riconquistarlo. E da notarsi, per altro, come le immagini suggerite in apertura — quella della folgore, della corrente elettrica, che illumina le città e mette in movimento i tram, quella delle acque, che dalle vette scendono a valle, trasformandosi in acqua potabile, corrente elettrica, energia idrica, pur richiamando tutte l’idea del dinamismo, cara ai futuristi, ricevono da Evola una significazione ben diversa. Gli uomini, osserva il Nostro, hanno contezza dell’energia elettrica o di quella idrica soltanto attraverso gli utilizzi che di esse si rendono disponibili in pianura. L’energia in sé nessuno può dire di possederla. Lo stesso dicasi dell’Io, inafferrabile nella sua “intima libertà” e “ricchezza infinita”, giacché solo le sue manifestazioni estrinseche sono a noi visibili e accessibili. Evola parla di un immenso potenziale che giace inerte, inutilizzato, accontentandosi gli uomini, per indolenza e viltà, di una “non-vita” incosciente di sé e dimentica della fiamma interiore che la anima.
Nel volumetto Arte astratta (uscito sempre nel 1920 per la Collection Dada), che in larga parte riprende, integrandoli, i contenuti del precedente manifesto, Evola fa propria la massima di Rimbaud, “Je est un autre”, a sottolineare come la coscienza ordinaria non possegga mai l’Io nella sua “intima libertà egoistica”, ma sempre e soltanto una determinazione dell’io (l’io-pratica, l’io-sentimento, l’io-filosofia). In me, scrive Evola, “l’Io non è l’Io”. Il compito che si annuncia è dunque quello di oltrepassare le manifestazioni estrinseche (psicologiche, gnoseologiche scrive Evola) di tale potenza, assumendo nei confronti delle singole realtà determinate il distacco con cui il geometra contempla i punti, i piani e le figure che nello spazio si compongono.
Un tale compito trascende ampiamente le capacità della filosofia, che Evola considera anzi affatto impotente (“la filosofìa non può nulla”) nella misura in cui quest’ultima indaga le cose in superficie senza riuscire a penetrarne l’essenza, come chi pretendesse di parlare dell’energia termica descrivendo il funzionamento di una locomotiva. La filosofìa è vincolata ad una prospettiva limitata della realtà, quella intellettualista, e anche quando essa riesce a indicare nell’Io il fondamento stesso della realtà, quest’Io non sa ottenerlo. “I filosofi presentano l’Io, vi aspirano ma non riescono a impugnarlo, a possederlo perché sono incatenati dalla coerenza del mercato”, cioè da quel principio d’identità (A=A) a cui è soggetto ogni contenuto del pensiero, ma che non può valere per l’Io stesso che quella legge ha statuito soltanto dopo aver posto se stesso. Evola giudica del pari irrilevante il contributo della scienza, ripiegata tutta su finalità utilitaristiche, e dell’arte, la quale il più delle volte si riduce a esprimere ciò che l’ispirazione le suggerisce, essendo in ciò assimilabile all’atto riproduttivo, siccome uno stesso istinto cieco, una medesima necessità fisiologica, una medesima naturalezza si impongono tanto all’artista quanto al “cane che salta sulla cagna e la monta”. Occorre invece, se l’arte vuole attingere a una coscienza superiore, all’Io assoluto, che essa si elevi “al disopra della naturalezza, del sentimento e dell’umanità”. L’arte deve diventare un “fatto egoistico”, “espressione freddamente voluta di uno stato interiore di estraneità”, l’estraneità del principio rispetto alle conseguenze da esso prodotte.
Date queste premesse, che denotano un profondo scetticismo nei confronti della prassi artistica comunemente intesa, Evola riconosce nel “sentimento estetico” l’“iniziazione verso la coscienza superiore” negletta e offuscata dal velo ingannevole delle manifestazioni. Tale sentimento necessita però di essere educato, giacché solo “gradatamente” esso può superare i molteplici stati in cui l’Io si è oggettivato, occultandosi, e in cui la coscienza empirica resta irretita: “a) lo stato della concezione concettuale del mondo; […] b) lo stato della spiritualità generica e dell’umanità; […] c) lo stato della naturalità dell’espressione”.
L’arte è chiamata innanzitutto ad affrancarsi dall’oggettività del reale, sviluppando un senso mistico, un’attitudine contemplativa “che trascenda metafisicamente la determinazione oggettiva” oppure scatenando la sensibilità in una frenesia orgiastica che porta allo scardinamento della coscienza ordinaria. Nel primo caso si avrà un auto-trascendimento della coscienza verso l’alto, nel secondo, un auto-trascendimento verso il basso — ed è a questa seconda modalità che Evola riconduce l’esperienza futurista, o almeno parte di essa.
Abolito lo stadio della concezione concettuale del mondo, la coscienza deve oltrepassare la sfera del senso morale, anch’esso dominato dalla “coerenza del mercato”, ovvero dalla distinzione e dalla reciproca opposizione tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra pio ed empio, etc. La coscienza non deve consentire ad alcuna delle categorie o dei valori morali di costituirsi come forza imperante su di sé, tali determinazioni rappresentando per essa dei vincoli e dunque altrettanti ostacoli sulla via della liberazione. Questo stadio corrisponde più in generale all’affrancamento dall’umano sentire, da quanto vi è di “spirituale” e di elevato nell’uomo, considerato persino — o forse è il caso di dire soprattutto — nelle sue forme più nobili (classicismo e romanticismo), ravvisando in esse un cedimento della coscienza, una resa all’oggettività del valore che si erge dinanzi ad essa come potenza dominatrice, indice “di malattia, vigliaccheria e di femminilità dello spirito”.
Il sentimento estetico, da ultimo, dovrà spogliarsi anche di quella spontaneità dell’espressione che Evola legge nei termini negativi di una subdola necessità interiore. Al contrario, “il sentimento estetico verrà concepito come sentimento dell’intima attività” dell’individuo “che ha trovato e realizzato sé stesso”. Si noti come, in questo processo di purificazione, l’opera d’arte non rivesta alcun significato particolare. Essa non è altro che “lusso”, “vanità”, “capriccio”, “un giuoco triste” a cui l’individuo non resta avvinto, ma che valuta cosa da poco, alla stregua di uno “smalto per unghie”.
Evola giudica il dadaismo l’unica prassi in senso lato artistica conforme al tentativo di una reintegrazione della coscienza superiore, definendolo a più riprese: “movimento estetico-spirituale”, “suprema terapeutica dell’individuo” oppure “preludio alla magia”. Queste espressioni, insieme ad altre dello stesso tono, tutt’altro che episodiche negli scritti firmati tra gli anni Venti e Trenta, testimoniano la consapevolezza con la quale il Nostro si diede a ciò che mai, nemmeno in età matura, pur con tutte le precisazioni che il tempo trascorso rendeva necessarie, considerò un “peccato, di gioventù”.
“Dada è il simbolo dell’antiumanità” scrive Evola nel Manifesto saccaromiceto del 1920, e dunque anche dell’arte, nella misura in cui quest’ultima dell’umano si fa mezzo di espressione. “Dada è distruzione”, “spingere tutto al buio”, perché “chi è profondo non pone né risolve mai problemi, ma porta dappertutto oscurità e confusione”. La luce sta a indicare qui una dimensione di superficie, il luogo della distinzione, della determinazione e perciò anche della condizionatezza, il dominio degli impulsi naturali e dell’intelletto. Al contrario, l’oscurità è il dominio dell’indistinto, dell’indeterminato e dunque dell’incondizionato. Questo buio non è altro che una “luce incomprensibile”, cioè la luce stessa nella sua noumenica e insondabile essenza, che tutto rischiara ma che da nulla può essere rischiarata. La dialettica tra manifestato e non-manifestato, determinato e indeterminato, rinvia all’Io quale ἅπειρου da cui via via si separano, irrigidendosi, “come secche croste […] cadute dal vivo tronco” le molteplici determinazioni del reale.