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DELLA TRADIZIONE ROMANA

di GENNARO D’UVA.

Estratto da “Arthos”.
N° 28 del 2019.
Edizioni Arŷa, Genova.

Il nucleo primigenio e la primordialità ancestrale del sacrum italico-romano, come pure, in essenza, l’aspetto più interno e fondante della successiva Tradizione romana, sono esemplarmente espressi in alcuni versi dell’Eneide virgiliana, ove l’ombra di Ettore affida ad Enea, in una trasmissione forse non solo puramente simbolica, gli Dei Penati e il Fuoco, cioè quegli stessi sacra, di evidente origine italica, che Dardano aveva portato, partendo “Corythityrrena ab sede” (Aen. VII, 209), prima a Samotracia e poi a Troia: “Le cose sacre (sacra), i Penati, a te Troia confida: / prendili compagni del fato (fatorum comites), cerca per loro le mura, / che un giorno alzerai, grandi, dopo aver corso il mare’. / Disse così: e sulle mani le bende e Vesta potente (vittasVestamque potentem) /  e il fuoco eterno (aeternumque ignem) fuori dei sacri recessi portava” (Aen. II, 293–297; tr. di R. Calzecchi Onesti).
 

Dei Penati e Fuoco di Vesta, dunque. Il Fuoco è certo ai Penati intimamente connesso, secondo anche quanto ci tramanda Macrobio: “[…] Vesta […], come è evidente, fa parte dei Penati o per lo meno è loro compagna, tanto è vero che sia i consoli e i pretori sia i dittatori, quando entrano in carica, celebrano a Lavinio il sacrificio ai Penati e parimenti a Vesta” (MACR., Sat. III, 4, 11; tr. di N. Marinone). Non si deve dimenticare, infatti, che se, da un lato, Lavinio, la “civitas religiosa” per eccellenza ancora per Simmaco (Epist. I, 71), fu considerata dai Romani sede dei “sacra principia populi Romani Quiritium nominisque Latini”, come recita il testo di un’iscrizione magistratuale dell’età di Claudio (CIL. X, 797); dall’altro, tornando a Penati e Fuoco, Virgilio, in Aen. I, 704, nomina gli Dei penates in luogo di focus, mentre Servio puntualmente precisa che “ ara deorumPenatium est focus” (ad Aen. XI, 211).
 

Penati, Fuoco e Vesta, proprio quelli di Dardano e di Ettore, sono del resto a Lavinio (i cui rapporti con Roma sono molto più complessi di quanto apparentemente sembri) strettamente collegati, poiché proprio dalla città fondata per tradizione da Enea vengono i Penati del Popolo romano, nei termini definiti dal sapiente Varrone, secondo cui: “Oppidum quodprimum conditum in Latio stirpis Romanae, Lavinium: namibi dei Penates nostri” (de l. Lat. V, 144).
 

. A questo retaggio religioso primordiale cosa si potrebbe aggiungere per rendere completo, negli essenziali riferimenti definitori, il sacrum della Tradizione romana? Ci viene in aiuto Cicerone, il quale, richiamandosi esplicitamente a Romolo e a Numa Pompilio, i due Re della prima  Urbs, ci offre una sintesi chiara di quale fosse il sacrum della Roma delle origini, mai alterato nel tempo sino almeno al IV secolo d.C., tra scienza augurale e riti per gli Dei, comprendendovi pure la sapienza sibillina e l’aruspicina etrusca: “Tutto il rituale religioso dei Romani si riduce alle cerimonie sacre ed agli auspici; a questi si potrebbe aggiungere un terzo elemento consistente negli ammonimenti che gli interpreti della Sibilla e gli aruspici, nello sforzo di predire il futuro, hanno ricavato dai portenti e dai prodigi. Nessuno di questi riti ho mai pensato che si dovesse trascurare e sono convinto che Romolo e Numa Pompilio gettarono le fondamenta della nostra città, il primo ricorrendo agli auspici ed il secondo creando il rituale religioso, né essa avrebbe potuto essere così grande senza un particolare favore degli dèi immortali” (CIC., de nat. d. III, 2, 5; tr. di U. Pizzani).
 

La conclusione della precedente citazione ciceroniana può ora interpellarci su una questione non di poco conto, già da me affrontata nel 2001 e sulla quale rinvio per i particolari ad un precedente scritto. È esistito ed esiste un Fato della Stirpe italico-romana, sinergicamente complementare ma distinto dalla volontà divina? Sembrerebbe proprio di sì, se, in Arcana Fatorum, a proposito dell’Eneide virgiliana, scrivevo quanto segue: “Il Fato, nell’Eneide virgiliana, è chiaramente distinto dalla volontà degli Dei, la quale ad esso necessariamente si adegua, anche se i Numi tentano a volte di ritardarlo, non potendolo del resto mutare o evitare. Lo stesso Giove, i cui decreti corrispondono sempre a quelli del Fato, conosce in anticipo l’arcano destino della nostra Stirpe, lo svela e ne diventa supremo esecutore. Ma i Fati troveranno la via, anche quando Giove si astiene dall’intervenire, come si legge in Aen. X, 104–113, specialmente 112–113: ‘Rex Iuppiter omnibus idem. Fata viam invenient’ (‘Giove è re uguale per tutti. I fati troveranno la via’; tr. di Rosa Calzecchi Onesti)”. Virgilio, tuttavia, non è, a tale riguardo, l’unica fonte esistente. Si potrebbero, per esempio, considerare Livio (I, 1) e Orazio (Carm. I, 12, 49–52). Ma di sicuro non è qui possibile ignorare l’emistichio di autore pagano sconosciuto, sul quale non si finirebbe mai di riflettere, dell’Apologeticum (XXV, 8) di Tertulliano: “Fato stat Iuppiter ipse”.
 

Ora, l’esistenza di un Fato sovraordinato alla stessa volontà divina è da inquadrare nel contesto di una questione altrettanto complessa e forse parimenti controversa: la mutata visione del tempo storico della  paganitas, maturata all’interno della cultura augustea e contrapposta alla tradizionale concezione ciclica di origine prevalentemente filosofica.
 

L’“imperium sine fine” di Virgilio (Aen. I, 279), l’“ Urbs in aeternum condita” di Livio (IV, 4) e le “aeternae[…] urbis moenia” di Tibullo (II, 5, 23–24) costituiscono le premesse necessarie per fondare un’aeternitas Romae che, mentre supera la concezione del tempo ciclico, propone una visione della storia totalmente antitetica, procedente verso il futuro in senso lineare e progressivo.
 

Fabrizio Fabbrini, considerando pure la tematica dei pignora aeternitatis di Servio (ad. Aen. VII, 188) e tenendo presenti soprattutto le decisive implicazioni dell’augurium augustum (ENNIO, Ann. 502, ed. Vahlen) collegato all’auspicium della fondazione romulea, mostra di aver perfettamente colto la portata rivoluzionaria della nuova visione della storia prodotta dalla cultura augustea intorno al tema dell’aeternitas di Roma: “Si tratta di un concetto legato all’augurium augustum. Dal momento in cui tale augurium venne pronunciato, essa [i.e. Roma] è l’urbs in aeternum condita. Si tratta di un concetto da meditare, perché involge tutta la questione dell’intuizione del tempo nella speculazione del mondo antico. Con essa siamo fuori da una concezione ciclica della storia; e vicini invece a quel sentimento del tempo che ritroviamo nell’intuizione biblica. È una visione orientata verso il futuro: un futuro con possibilità di progresso. Infatti, ciò che è fondato per l’eternità è pensato come sottratto alla legge del divenire ciclico. Per intendere un imperium sine fine, occorre negare che la Storia possa ricominciare da capo. La Storia è una soltanto: una volta iniziata non ricomincerà. Questa visione storica viene assunta consapevolmente da Augusto e fatta oggetto di programma politico. Il fatto che egli è l’Augustus assicura i popoli circa l’eternità della nuova costruzione storica: l’augurium augustum di cui egli è dotato è tale da fondare per sempre la nuova storia. […] Con Augusto la storia tutta è stata già ricapitolata: e se pure prima di lui il tempo aveva andamento ciclico, ora invece ne avrà uno lineare e progressivo”.
 

Ritengo senz’altro corrette le considerazioni di Fabbrini, alle quali si può aggiungere che anche prima di Augusto e dell’alta cultura augustea era già stata formulata un’idea dell’eternità urbica, probabilmente germinata nell’ambiente pitagorico della Locri del III secolo a.C., così come è espresso nell’ode a Roma di Melinno, ove l’imperium dell’Urbe, previsto dal Fato, come eccezione unica nella realtà storica del mondo antico, non può essere scalfito dalle trasformazioni di Aión (Tempo). Ciò sottolinea Santo Mazzarino, per il quale non si deve “dimenticare che un’eternità di Roma era già pensata, nel 3° secolo a.C., da Melinno di Locri, in connessione con l’idea di Aion: e Locri, città di Melinno, era anche la città della grande cultura pitagorica, la città (per esempio) di Timeo, il personaggio del dialogo platonico. Se si pensa all’importanza dell’idea di cambiamento e decadenza per il pitagorismo e si considera l’influsso del pitagorismo sulla cultura romana, dobbiamo tenere in conto anche questa componente pitagorica dell’idea di eternità di Roma: Melinno contrappone al generale cangiare delle vicende la stabilità della sola Roma”.
 

Tralasciando qui ogni possibile riferimento alla IV ecloga di Virgilio o alla concezione sacrale etrusca dei saecula, che tanta importanza ebbero a Roma per determinare il diffuso sentimento di crisi e di tramonto fatale dell’Impero, e che sarebbero temi strettamente collegati alle precedenti considerazioni, è opportuno riportare, a conferma di quanto si è scritto, le sintetiche e significative parole di Marta Sordi: “I concetti di durata e di fine che si incontrano nell’immagine di Roma aeterna, di Roma come quinto dei quattro imperi di Daniele e di Sura, delineano uno svolgimento lineare della storia, ben diverso da quello prospettato dal mito dell’eterno ritorno, per il quale la storia ha uno svolgimento ciclico. Questa concezione, che appare presente nella filosofia greca e in quella parte della storiografia antica che alla filosofia appare collegata, è estranea alla concezione etrusco-romana della storia, in cui l’idea di fine appare ben chiara e il mutamento è concepito non solo come decadenza, ma anche come progresso nella continuità, secondo una linea di rinnovamento nella tradizione e addirittura di tradizione del rinnovamento, che già Polibio aveva colto nei romani, che Cicerone, Sallustio, Livio, Claudio teorizzano e che Ambrogio consapevolmente riprende in chiave cristiana”.
 

L’Impero romano d’Occidente, nella sua forma statuale pubblica, ha concluso il proprio ciclo di esistenza nel V secolo d.C.: ciò non significa per nulla che l’idea di Roma sia allora contestualmente e definitivamente scomparsa. Anzi, senza considerare le riemergenze parziali della Romanità nel corso dei secoli (come nel Rinascimento, nel Risorgimento e nel Fascismo), è possibile dire che anche l’attuale Stato repubblicano conserva in radice qualcosa di ‘romano’, preservatosi, sia pure con contrazioni, interruzioni e apparenti dissolvimenti, nella persistenza, anche inconsapevole per i più, dei nuclei fondanti originari di Ius e  Fas, entro le istituzioni politiche, giuridiche e culturali della civiltà nazionale; e quindi naturalmente anche molto tempo prima della nascita dello Stato nazionale unitario del 1861.
 

Cosa ne è oggi della Tradizione romana, in senso puramente pagano? Certo, attualmente esistono gruppi e associazioni che all’idea pagana di Roma si richiamano, facendovi diretto riferimento con riservate azioni rituali e con pubblicazioni. Tra questi gruppi è da annoverarsi quello dei Dioscuri, nato alla fine degli anni ’60 dello scorso secolo e ancor oggi attivo. Tale gruppo, per iniziativa soprattutto di Franco Mazzi (1936–2000), volle riaccendere in Roma il Fuoco di Vesta, come peraltro fu comunicato nel quarto dei noti fascicoli dei primi anni ’70, Phaersu – Maschera del Nume. Si trattò indubbiamente di una decisione ardua e coraggiosa, che è da ritenersi comunque molto importante, avvenuta peraltro in un momento storico non molto favorevole per tentare, come era nelle intenzioni del gruppo, di favorire una rinascita del Paese in senso ‘tradizionale’ e ‘romano’.
 

Un Fuoco visibile, ma da custodire in segreto, come quello dei Dioscuri, non fu mai riacceso nell’ Associazione Pitagorica di Amedeo Rocco Armentano e di Arturo Reghini, né nel successivo Gruppo di Ur. Tuttavia, mi è sempre piaciuto considerare in modo estensivo e possibilista certe parole reghiniane della premessa Ai Lettori di “Ignis” 1925 (anno I, gennaio-febbraio, n° 1–2, p. 3), che però sembrerebbero configurare scenari non perfettamente identici: “Questo fuoco sacro non è perduto, anche se il tempio ad esso consacrato ne è deserto, anche se in sua vece ed in templi, che la Sapienza non illumina, arde una impura fiamma usurpatrice. Riconquistare la ‘Terra Santa’, nella ‘Città Santa’ sul ‘Sacro Colle’ ricostruire il Tempio, e nel santuario del Tempio ricollocare il fuoco sacro, è l’obbiettivo tradizionale, il compito e l’aspirazione di tutti gli artefici, costruttori e cavalieri, che operano e lottano sotto gli auspicii della gerarchia spirituale universale”.
 

Mentre vengono scritte le presenti righe, in quotidiani e riviste tutti hanno potuto leggere articoli commemorativi, invero di diseguale valore, del centenario dell’impresa dannunziana di Fiume. In nessuna di tali rievocazioni, tuttavia, è stata sottolineata l’importanza delle seguenti parole, dedicate, nella Carta del Carnaro di Gabriele d’Annunzio, alla solo apparentemente enigmatica Decima Corporazione: “La decima non ha arte né novero né vocabolo. La sua pienezza è attesa come quella della decima Musa. È riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. È quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue. È rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente, che porta inscritta un’antica parola toscana dell’epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: ‘Fatica senza fatica’”. 
 

Da Gabriele d’Annunzio ad Arturo Reghini: lo stesso Fuoco. Gli Italiani se ne ricordino. Magari, in attesa di tempi più propizi e fausti, pure solo per rinvigorire animicamente la fiamma perpetua, anch’essa sacra, dell’Altare della Patria di Piazza Venezia in Roma.

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